Yunan: la recensione del dramma sull'esilio di Ameer Fakher Eldin in concorso a Berlino
Un uomo in esilio, un migrante in Germania da un paese arabo vive soffocato dai ricordi e non sembra adeguarsi al nuovo paese adottivo. Un dramma raccontato con ritmi antichi e la ricerca di epicità da parte di Ameer Fakher Eldin in Yunan, presentato in concorso a Berlino 2025. La recensione di Mauro Donzelli.
Munir soffre, lo sguardo perennemente perso nel vuoto o in un computer portatile. Vive in Germania e viene da un paese arabo, lo vediamo rivitalizzarsi solo quando parla al telefono a migliaia di chilometri di distanza, con la sorella e una madre che ormai ha perso la lucidità e non lo riconosce neanche. Rappresenta un mondo di tradizioni e di cultura enormemente lontano rispetto alla grigia e gelida Amburgo in cui abita ora. Il racconto orale della storia di un pastore e della sua splendida moglie lo riporta, cullato dalla voce della madre, al ricordo delle aride pianure del suo paese. È una specie di coro greco che accompagna Yunan, un viaggio di rassegnazione, così potremmo chiamarlo, di un uomo comune in esilio, di un migrante che sembra aver preso una decisione definitiva, almeno a giudicare dalla pistola che porta con se in un piccolo zaino, mentre si avventura in un luogo remoto del paese che l’ha ospitato, da Amburgo a un isola nello stato più a nord della Germania, lo Schleswig-Holstein, al confine con la Danimarca.
Ha sempre in testa la parabola del pastore, così come ricordi costanti ammantati di nostalgia del passato e della sua terra. Arriva in un luogo così lontano eppure così simile, silenzio e la natura in primo piano, con una piccolissima comunità che si riunisce attorno a un piccolo locale con qualche stanza in affitto. È li che incontra una enigmatica anziana, interpretata da Hanna Schygulla, con cui sembra trovare una linea di comunicazione, per lo più non verbale. Più ostico il rapporto con il figlio di lei, Karl, con cui si instaura una sorta di gelosia e competizione. Qualche gesto di garbo e gentilezza aiuterà a ricreare un microcosmo di calore nella vita ormai disperata di Munir, e forse a rimettere in discussione la sua decisione così ultimativa. Il tutto in un panorama affascinante e remoto, fra una marea che inonda parte dell’isola, serate alcoliche e ritmi dilatati all’infinito.
Ameer Fakher Eldin è un autore di origine palestinese e siriana che vive ad Amburgo, dopo essere nato a Kiev, in Ucraina, da genitori originari delle alture del Golan. Il film rappresenta il secondo capitolo dopo l’esordio, The Stranger, di una trilogia dedicata alla madrepatria, al tema dello sradicamento. C’è ovviamente molto di personale, quanto meno culturalmente e narrativamente, nella vicenda di Yunan, in quella che però si dimostra una ricerca estenuante di epicità, basti pensare anche al titolo, che rimanda a un nome arcaico della Grecia, patria della tragedia e dell’epica, che ottiene purtroppo solo una circolarità del racconto che non permette ai personaggi e alla ragione stessa di questa storia, il racconto atavico dell’esilio come disperazione, di progredire più di tanto fin dai primi minuti. È un andamento in costante accumulo drammatico, silenzioso e dai tempi dilatati, senza variazioni o momenti in cui diluire questo senso di pesantezza esistenziale. In questo modo si perde in efficacia, in immedesimazione e tensione drammaturgica.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito