Wolf Man, la recensione: l'uomo lupo secondo Whannell, tra patriarcato e sperimentalismo
Un po' come com L'uomo invisibile, il regista australiano spiazza e sorprende con un film davvero insolito, considerata la sua matrice produttiva. Un film che trova nella sua ambiguità e in certe contraddizioni interne l'origine di uno strano fascino. La recensione di Wolf Man di Federico Gironi.
Blake è un marito e padre moderno. Vive a San Francisco, sta a casa, si prende cura con amore della figlia Ginger mentre la moglie Charlotte si concentra al massimo sul suo lavoro. Certo, non è che il loro matrimonio vada benissimo, e lo vediamo anche avere un piccolo scatto, davvero veniale, con Ginger che in qualche modo ci ricorda suo padre, il padre di Blake, brusco e autoritario, che abbiamo conosciuto in un prologo ambientato nei boschi dell’Oregon.
E allora lo sappiamo tutti che quando Blake convince Charlotte a passare del tempo nella casa della sua infanzia, quando quel padre scomparso da tempo viene finalmente dichiarato morto, succederà qualcosa di brutto: perché Wolf Man è un horror, certo, ma perché è un horror del 2025, e perchè Blake sarà pure moderno, ma è pur sempre un uomo, e il mostro che si porta dentro, ereditario, è quello del patriarcato, anche e forse soprattutto inteso come incapacità di amare e parlare come si deve. E con quello si dovrà tutti fare i conti.
Ecco qui. L’analisi di Wolf Man, così diretto e ovvio e evidente nel suo piano simbolico e metaforico, potrebbe anche chiudersi qui. Non c’è davvero molto altro da dire. Potrei aggiungere dei dettagli che, in qualche modo, sarebbero un po’ uno spoiler, quindi evito. Evito perché non c’è nulla di così sorprendente o articolato che faccia valere la pena di dire e di spoilerare, nemmeno per quanto riguarda la coppia e le sue dinamiche. Da questo punto di vista sarà anche giusto, Wolf Man, sarà anche in linea con lo zeitgeist, ma - sarà che sono uomo anche io, quindi quasi irredimibile - mi pare anche un po’ troppo semplice e telefonato.
Se a questo aggiungiamo che l’aspetto puramente horror del film fa il suo dovere senza stupire, potremmo quasi dire che questo nuovo film di Leigh Whannell non sia particolarmente interessante, o comunque rimarchevole. E però c’è qualcosa che mi continua a lavorare in testa da quando ho visto il film, qualcosa che non ha a che fare con la letteralità dei temi di Whannell, né con la sua capacità di far più o meno paura.
Mentre guardavo Wolf Man tutto mi sembrava coerente con quel che dal film ci si poteva aspettare sulla carta, col nome del regista, coi marchi della produzione, con le chiare aspettative commerciali che porta con sé. Eppure, al tempo stesso, qualcosa in questo contesto non tornava. Perché le modalità racconto di Whannell, i tempi, la messa in scena, la forma stessa del film contengono qualcosa di strano, di insolito, di non allineato rispetto a quanto ci si poteva aspettare da una produzione mainstream come questa.
L’incipit è piuttosto tradizionale, nel complesso, anche se qualcosa già si intravede; ma quando incontriamo il Blake adulto, e ci troviamo di fronte alle sue dinamiche familiari, già si intravede qualcosa di particolare: una strana asciuttezza, una ruvidità che va oltre le tensioni di coppia che pure rispecchia, una sorta di narrazione disadorna che sembra guardare a un cinema scomparso da decenni.
La voglia di Whannell di spiazzare il suo spettatore, di lavorare sul suo straniamento, esplode poi non appena Blake e famiglia lasciano la civiltà della metropoli per entrare nell’oscurità primordiale dei boschi: perché contrariamente alle regole non scritte del genere, non c’è la consueta fase in cui i protagonisti si installano nella nuova casa, per scoprire lentamente e inesorabilmente che qualcosa di terribile li aspetta. No, l’orrore, il mostro, l’ancestralità del patriarcato o quel che volete, irrompe sulla scena immediatamente, con un’accelerazione temporale inaspettata. In fin dei conti, Wolf Man, si svolge (in Oregon) tutto in una notte, e con soli tre personaggi: un minimalismo interessante e significativo.
Ed è lì, nel buio di una fattoria sperduta nel nulla, in quel luogo assediato dalla creatura ma non solo, che Whannell gioca in maniera quasi sperimentale (per un film di questa matrice produttiva) con toni e modi che regalano una sensazione di netto straniamento, e di concreta irrealtà: nella gestione dei tempi e degli spazi, nelle reazioni e nei comportamenti dei protagonisti. Addirittura, in qualche artificio formale che, fino a quando non viene utilizzato in maniera un po’ eccessiva e ripetitiva, contribuisce a quella che è una sorta di piccola ma significativa perdita dell’orientamento dello spettatore che fa il paio con quella dei protagonisti..
Poi certo, alla fine della fiera si torna sempre alla questione sottostante, alla questione patriarcale, al non saper amare, e quindi parlarsi e capirsi, e tutto va a finire come deve andare a finire, o come è più semplice, e furbo, che vada a finire. Se solo avesse fatto qualche sforzo in più anche nella gestione dei temi, se solo avesse avuto lo stesso coraggio che ha dimostrato nella forma del suo film, Whannell avrebbe davvero fatto centro.
Stanti le cose come stanno, Wolf Man rimane un film ambiguo, in equilibrio precario tra l’ovvio e l’insolito. Ma in questa sua precarietà, in queste sue contraddizioni interne, in questa sua irresolutezza che lascia tanto di sfocato, sta in fin dei conti il segreto del suo fascino.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival