Winnie the Pooh - la recensione del film
Per il suo 51° lungometraggio animato, la Disney ripropone Winnie the Pooh e il suo Bosco dei Cento Acri: professionalità e finezza assicurate.
Winnie the Pooh - la recensione
Fino a pochi anni fa nessun appassionato di animazione avrebbe scommesso sull'idea che il cinquantunesimo film del canone dei lungometraggi disneyani potesse essere dedicato a Winnie the Pooh. Tra i personaggi più amati della casa, pur importati con fedeltà estrema dalla creazione letteraria di A. A. Milne, gli abitanti del Bosco dei Cento Acri sono stati più volte utilizzati in serie tv, speciali e tre recenti film d'animazione realizzati dalle ormai chiuse succursali giapponesi e australiane. Un viaggio creativo parallelo e amato dai più piccini che sembrava aver però perso l'interesse del nucleo degli animatori storici della Disney ufficiale, persa a cercare la propria identità nel mare magnum dei musical anni Novanta prima e della computer grafica in 3D adesso.
Film prodotto in un estremo e tradizionalissimo 2D disegnato a mano, Winnie the Pooh si propone a partire dal titolo come una riscoperta artistica a 360°. Pescando direttamente dai racconti di Milne, il soggetto (curato dal veterano Burny Mattinson, già autore del Canto di Natale di Topolino e coautore di Basil l'investigatopo) fonde e intreccia tre storie: la ricerca monomaniacale del miele da parte del mitico Winnie, la sparizione della coda dell'asino Ih-Oh e il presunto rapimento del bambino Christopher Robin, attribuito dai nostri eroi a un ancor più presunto e improbabile mostro.
Immaginate cosa possa significare nel 2011 un film d'animazione che sia costruito su misura per i più piccoli, che non voli su movimenti di camera estremi, che non rintroni, che non obblighi agli occhialini 3D, che cerchi l'espressione e l'emozione senza impantanarli nel barocco.
Più ancora che in La principessa e il ranocchio, il gotha dell'animazione 2D disneyana (Henn, Deja, Haycock, Baer) si mette al servizio di una mimesi. Rispettando la recitazione che la prima generazione di autori disneyani aveva impostato nel lontano 1966 con Winnie the Pooh and the Honey Tree, il gruppo, capitanato da Don Hall e dallo Stephen Anderson che aveva diretto I Robinson, interpreta i miti con rispetto e filologia: in scala minore, l'avevano già fatto con lo sperimentale corto di Pippo di quattro anni fa, Pippo e l'Home Theatre.
Rapido senza essere sovraccarico, il film procede sicuro per appena un'ora di durata, lasciando spazio all'interazione pulita tra i personaggi all'interno dell'inquadratura. L'occhio cade sereno sulla recitazione ma soprattutto, in ossequio alla pura tradizione disneyana, sulla caratterizzazione di ogni protagonista.
Completano il quadro canzoni brevi (eseguite in originale da Zooey Deschanel) e quello che sembra un omaggio agli elefanti rosa di Dumbo: una sequenza onirica di presentazione del "mostro", orchestrata con delicata fantasia grafica da Eric Goldberg, creatore del Genio di Aladdin e regista della Rapsodia in Blu, l'episodio migliore di Fantasia 2000.
Cinicamente si potrebbe insinuare che anche la Disney si stia rifugiando nel reboot, ma l'animazione tradizionale, specialmente quando ripropone personaggi eterni, gode di una corsia preferenziale che annulla ogni dubbio di codardo nostalgismo. Una corsia che John Lasseter, da appassionato di auto e di corse, ha mirabilmente scelto di percorrere.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"