Whitney Houston: recensione del documentario sulla grande e sfortunata cantante presentato al Festival di Cannes 2018
Affresco sui trionfi e i dolori di Whitney Houston.
Il documentario musicale si divide in due generi differenti come la vita e la morte: quello pieno di brani dal vivo, di artisti al massimo della loro gloria e quello su una delle tante icone tramontate troppo presto, morto per suicidio o abuso di droghe, o magari entrambe le cose insieme. Filone particolarmente presente nei grandi festival internazionali come Cannes, alcuni anni fa con Amy, sulla britannica Winehouse e quest’anno Whitney Houston, su una delle più grandi interpreti della musica pop americana di sempre. Sono documentari che in hanno in comune la rabbia trasmessa allo spettatore per un talento straordinario e una vita d’artista sprecata così prematuramente. Esplosa come erede in chiave pop di Aretha Franklin, vera reginetta della canzone americana dagli anni Ottanta, la Houston consolidò il suo status di cantante più venduta al mondo in un’epoca in cui i dischi di vendevano ancora, e bene. Il suo record (per una donna) di vendite del singoloi I Will always love you (tratto dalla colonna sonora di Guardia del corpo) è ancora imbattuto, e le portò in dote un contratto discografico da 100 milioni di dollari.
Lo scozzese Kevin MacDonald torna a dedicarsi al documentario musicale, dopo Marley, realizzando un solido lavoro pieno della vitalità della Houston, ma anche di molte testimonianze che aiutano a socchiudere una finestra sulla psiche tormentata della cantante del New Jersey.
Figlia di una corista per artisti del calibro di Elvis Presley e della Franklin stessa, e di un padre trafficante fra politica e malversazione nel comune di Newark, crebbe con i fratelli affidata di volta in volta a famiglie diverse, fra parenti alla lontana e una madre spesso assente. Una storia diversa, però, rispetto a quella di tanti artisti o sportivi afro americani usciti dai ghetti delle arie urbane, vista la situazione economicamente medio borghese in cui crebbe. Quello che soffrì fin da subito, però, e che rese difficili i rapporti anche nel resto della sua vita, fu il rapporto con la madre, intervistata solo per poco da MacDonald, all’inizio del film, ma non più chiamata in causa per testimoniare dei momenti più bui di vita della figlia. Uno dei tanti punti interrogativi che rimangono in testa allo spettatore anche dopo la visione del film, pur appassionante e scrupoloso nel coinvolgere molte persone a lei vicine. Persone come il marito di 14 anni, Bobby Brown, rovinosa figura per la cantante, spesso presa a botte e tradita, anche pubblicamente.
Una delle novità che esce fuori, attraverso alcune testimonianze, è l'immagine di una Whitney Houston che si confida su molestie sessuali subite da una prima cugina, Dee Dee Warwick, sorella della più nota Dionne. Uno dei momenti in cui si delinea il ritratto di una donna aggrappata disperatamente al rapporto con un compagno palesemente distruttivo come Brown, per non finire divorziata come la madre. Cruciale il suo rapporto quotidiano con le droghe, soprattutto cocaina, che ha sempre pensato di poter controllare e l’ha portata prima alla rovina economica, poi a quella pubblica con un'ultima tournée catastrofica, senza più la condizione e la voce per farsi valere.
Come in molte situazioni del genere le persone intorno a lei, la famiglia in prima fila, pensarono solo a succhiarle sangue, fama e soldi, usandola come un bancomat senza preoccuparsi della sua salute. A partire dal padre, che finì per farle causa nonostante le avesse sottratto illecitamente un sacco di soldi. Whitney Houston aiuta a far luce un po’ di più sulle dinamiche che la resero l’irriconoscibile donna sofferente degli ultimi anni, scavando nelle personalità intorno a lei, con la sua splendida voce e i suoi grandi successi ad accompagnarci nella’ammirazione e nella malinconia per una fine, arrivata nel 2012 in una vasca da bagno d’hotel, decisamente troppo prematura.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito