Warfare - Tempo di guerra, la recensione del film di Alex Garland e Ray Mendoza

26 giugno 2025
3.5 di 5
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Alex Garland ha fuso la sua consapevolezza cinematografica con i ricordi di un ex-Navy Seal, Ray Mendoza, per raccontare con unità d'azione, tempo e luogo la storia vera di una disperata missione in Iraq del 2006. La nostra recensione.

Warfare - Tempo di guerra, la recensione del film di Alex Garland e Ray Mendoza

Ramadi, Iraq, novembre 2006. Un gruppo di Navy Seal prende possesso di un'abitazione privata, onde sorvegliare di nascosto la zona, per il passaggio delle forze di terra il giorno dopo. Vengono scoperti dai militanti di Al Qaeda. Devono arrivare vivi all'evacuazione. Non c'è altro, ma deve bastare: un cartello iniziale ci informa che tutto quanto il film mostra è la ricostruzione esatta di quello che accadde, senza aggiunte romanzesche. Alex Garland ha scoperto la vicenda parlando con Ray Mendoza, ex-Navy Seal e stunt coordinator del suo Civil War: affascinato dal resoconto, ha deciso che avrebbe scritto e diretto il lavoro proprio con Mendoza, dedicando il lungometraggio a Elliot Miller, il cecchino rimasto invalido, nella finzione interpretato da Cosmo Jarvis.

Garland e Mendoza hanno parlato di "approccio forense" nella realizzazione di Warfare - Tempo di guerra, e d'altronde il titolo stesso è programmatico: questo film è una definizione filmata del combattimento in zona di guerra, contestualizzato dal punto vista geografico e storico, ma non da quello morale o psicologico. L'ora e mezza concepita dagli autori non è un percorso attraverso le psicologie dei soldati protagonisti, al massimo affioranti in qualche sguardo, ma è l'ansiogeno oscillare delle loro reazioni immediate a un'emergenza prima suggerita, poi deflagrata. Warfare è letteralmente la guerra, ma in quasi nessuna chiave tradizionale: non c'è quella che chiamammo "celebrazione problematica" di American Sniper, non c'è la spietatezza morale di Full Metal Jacket, non c'è nemmeno la retorica nazionalista, né c'è l'autocritica più liberal di un Green Zone (anche se viene messa in scena una pragmatica violazione di protocollo). Warfare è un film che, come i suoi protagonisti, obbedisce e soffre, trascinandoci in un'identificazione che travalica motivazioni pro o contro, ma ci pone sullo stesso livello dei militari di professione, attraverso condivisibili manifestazioni primarie, siano la paura e un lancinante dolore fisico: un'esperienza sensoriale che però, non del tutto volontariamente, in quest'epoca un valore morale finisce per averlo comunque.

Se ancora non l'avessimo capito da quello che sta accadendo nel mondo, in Occidente non si finge nemmeno più di mettere in discussione la guerra come passo inevitabile: ricostruire un episodio del genere, senza giudizi pro o contro ciò che accade, è l'emblema di questa inevitabiltà. Come pubblico siamo impotenti, allo stesso modo della famiglia irachena che deve accettare lo sventramento della sua casa. Quello che succede, iperviolento o meno che sia, è uno "sporco lavoro che qualcuno deve fare", e tanto vale raccontarlo con rispetto, coi fatti e senza sovrastrutture. Forse è più inquietante questa lettura che la violenza di alcuni momenti, in particolare quelli che riguardano le conseguenze fisiche terribili dello scoppio di un ordigno improvvisato. Garland tiene comunque a freno la sua vocazione orrorifica, se ne fa inluenzare nel modo migliore solo nell'opprimente sound design: il film è privo di musiche, se non sui titoli di coda e soprattutto nell'introduzione, con la goliardica visione collettiva di un video di sexy aerobica, magra compensazione di una vitalità che al massimo prenderà solo la via dell'istinto di sopravvivenza, di lì a poche ore. A dir il vero il gruppo asserragliato, circondato da una collettiva violenza anonima, ci ha riportato alla mente per poco l'ansia quasi metafisica del Distretto 13 di John Carpenter, ma è finito il tempo in cui si cercava rifugio dalle angosce contemporanee nelle radici epiche del western. Osservando nei titoli di coda le foto degli attori affiancate a quelle dei veri soldati, i visi oscurati di alcuni di loro ci negano il rilascio della tensione e il ritorno alla nostra normalità.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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