Vanishing on 7th Street - la nostra recensione

29 luglio 2011
3.5 di 5

Brad Anderson si conferma abilissimo nella costruzione della tensione e nello sfruttare al massimo il minor numero possibile di elementi e personaggi, nella gestione del genere inteso in senso nobilmente classico.

Vanishing on 7th Street - la nostra recensione

Vanishing on 7th Street - la recensione

Da sempre, Brad Anderson è regista che incentra il suo lavoro su sentimenti puri e ancestrali, connaturati alla natura umana, alla sua psiche, alle sue deviazioni. Su opposizioni forti, contrasti netti, sfumature assenti e, paradossalmente, inversamente proporzionali alle innumerevoli ambiguità di senso e percezione.
E quale paura più ancestrale di quella per l’oscurità? Quale opposizione più netta, eppure sfumatissima, di quella tra il buio e la luce?

Partendo quindi da un materiale narrativo che gli è perfettamente congeniale, con Vanishing on 7th Street il regista si conferma abilissimo nella costruzione della tensione e nello sfruttare al massimo il minor numero possibile di elementi e personaggi, nella gestione del genere inteso in senso nobilmente classico.
Fin dall’incipit essenziale e rapidissimo (con origine non casuale all’interno di una sala cinematografica), siamo subito gettati nel vivo dell’(in)azione, imparando a conoscere i quattro sopravvissuti alla misteriosa catastrofe che ha gettato Detroit nell’oscurità e della paura man mano che la vicenda prosegue. Scoprendone, progressivamente, le zone d’ombra mentre che le altre ombre – quelle oscure, minacciose e metafisiche – stringono sempre più il cerchio attorno a loro.

Alle catastrofi romeriane e al senso dell’assedio evidentemente carpenteriano, a questo suo nuovo film Brad Anderson aggiunge con crescente evidenza un impianto quasi filosofico che da più parti è stato accomunato a quello dello Shyamalan di E venne il giorno: non a torto, anche se dell’indiano si potrebbero citare anche altri titoli, su tutti Signs.
Ostentando progressivamente colpe e sensi di colpa, errori e omissioni, prechiudendo sfacciatamente in una Chiesa, Vanishing on 7th Street riflette poco in realtà sull’espiazione intesa in senso religioso: ad Anderson interessa di più mostrare un sistema che è collassato sotto il peso delle sue stesse ombre, che necessità di un riavvio esplicitamente citato.
E allora non potranno essere che le generazioni più giovani (e quindi innocenti) a sfidare fino in fondo gli oscuri abissi nelle cui grinfie si cessa di esistere in senso fisico e spirituale. Abissi della mente, prima di tutto, che come da perfetto stile andersoniano, trovano il loro riflesso in un esterno concreto e impalpabile, seducente e letale nel suo richiamo che fa leva su desiderio e debolezza.

Cinema magari imperfetto ma di impianto orgogliosamente e puramente tradizionale, Vanishing on 7th Street è a tratti troppo sfacciato, troppo tentato d’illuminare con chiarezza una trama che si perde un po’, ma riesce a compensare questi eccessi con il fascino minaccioso di ciò che rimane sfumato e nascosto nell’ombra della paura.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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