Uomini di parola - la recensione del film con Al Pacino e Christopher Walken
Nonostante un inizio ai limiti della commedia farsesca, il film di Fisher Stevens ha una sua coerenza e una sua vena intimista solitamente estranea al genere
A un primo sguardo, e a giudicare dal titolo, dal manifesto e dalla frase di lancio “Non è mai troppo tardi per sistemare le cose”, Uomini di parola potrebbe sembrare una versione meno testosteronica, più notturna e più epica de I Mercenari, soprattutto se si restringe il paragone ad Al Pacino: stessa ironia di fondo, stessa fiducia nelle seconde possibilità, stessa aura.
E invece questo film che arriva nel periodo estivo e che è stato affidato a un regista di documentari che fa anche l'attore, non gioca né con muscoli e squadre speciali, né tantomeno con una nostalgia che, applicata a tre vecchie glorie visibilmente aliene agli steroidi, sortirebbe un effetto fra il comico e il patetico.
In effetti questo pericolo il film lo corre nei primi venti minuti, durante i quali Pacino rischia seriamente di compromettere il proprio mito producendosi in una serie di gag piuttosto telefonate legate a un sovradosaggio di Viagra.
Ma è soltanto un passo falso, forse nato dalla voglia di creare una comica cesura fra il passato senza sconti del protagonista e il suo primo giorno di libertà che potrebbe essere una corsa a precipizio verso la morte.
Anche se parla in termini positivi dell'amicizia e si concede un'indiavolata corsa notturna a bordo di un'auto rubata, Uomini di parola è infatti un film duro che parla di un mondo duro, una fotografia non ritoccata di una realtà in cui i cattivi non dimostrano alcuna pietas e i fuorilegge vivono accquattati in palazzi fatiscenti.
Questo sguardo impedisce al film di entrare a pieno titolo nella categoria degli action-movie, e non perché manchino scene movimentate, ma perché, in virtù di una sceneggiatura scritta da un uomo che ha frequentato il teatro (Noah Haidle), il racconto si fa via via più intimista e melancolico, sfociando in un ritratto amaro della vecchiaia intesa non come condizione di pace e di saggezza, ma come espressione di un fortissimo senso di non appartenenza.
Senza Christopher Walken tutto ciò non sarebbe possibile, perché la dignità che il film progressivamente acquista viene proprio da lui, attore solido, sobrio, pacato.
Se il giusto contraltare della sua misura sta nell'ironia di cui è depositario Alan Arkin, che si diverte a fare il seduttivo senza rinunciare a un accenno di tenerezza, paradossalmente – e come abbiamo già detto, la nota stonata è Al Pacino, che, Wilde Salome ed esperimenti analoghi a parte, si confina sempre più in ruoli al limite del farsesco.
Anche lui però si riprende verso la fine del film, abbandonando la sua aria da vecchio satiro per indossare nuovamente il vestito dell'eroe.
Con le sue tavole calde sempre aperte e i suoi squallidi appartamenti male illuminati, Uomini di parola è infine una rappresentazione di un paese sottotono: un'America spogliata di ogni retorica in cui ai gagster di una volta non resta che scassinare le farmacie e andare a letto presto.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali