Unbroken - la recensione del dramma bellico di Angelina Jolie
La signora Pitt il cinema lo sa fare, ma inciampa sulla caratterizzazione del protagonista.
Che Angelina Jolie abbia compiuto negli anni un “upgrade di status” è fuori discussione, e non è una trasformazione che nasce da un lavoro a tavolino o da una strategia di marketing per far diventare ancora più famosa la già famosa Lara Croft. No, le tre adozioni e le cause umanitarie sposate rispondono sicuramente a un'esigenza confrontarsi con l'altro da sé e di guardare oltre le vetrate delle ville con piscina, siano esse a Malibu o in Francia.
E' naturale, però, che a una crescita come persona corrisponda anche la voglia di non essere più un'icona da blockbuster, ma un autore cinematografico, un filmmaker con una strada da seguire e un messaggio da lanciare, tanto più se si pensa che un attore avrà pure dalla sua il talento, ma ormai la genialità e la profondità di contenuti sono prerogativa soprattutto di un regista.
E così ecco la signora Pitt che si mette a dirigere prima un documentario che invita alla fratellanza, poi una storia d'amore ai tempi della guerra in Bosnia e infine Unbroken, una grande lezione di perdono, umanità e accettazione. Sono tre film che non hanno proprio nulla di amatoriale, alla faccia di chi non ha mai scommesso su Angie.
Scegliendo di narrare la brutta avventura vissuta durante la Seconda Guerra Mondiale da Louis Zamperini, la Jolie, che pure è andata da Papa Francesco, si è concentrata sulla parte più laica della sua vita, forse perché più cinematografica. E anche se nel suo protagonista è facile individuare non proprio un simbolo dell'individualismo statunitense, ma comunque l'americano che ce la fa perché pensa positivo, non c'è nelle intenzioni della regista il tentativo di arruffianarsi lo zoccolo duro del paese che crede ciecamente nella Bibbia e nei dieci comandamenti.
Se solo avesse fatto un film sulla totale adesione di Zamperini ai principi del cristianesimo dopo i disordini da stress post traumatico, allora sì che avremmo parlato di un'operazione furba. Angelina, invece, è veramente stata travolta dalla tragica vicenda del campione di corsa italo-americano e si è battuta come una leonessa perché la Universal le permettesse di raccontarla. Con l'umiltà di uno studente universitario al primo anno del corso di laurea, ha chiesto aiuto a Roger Deakins e si è lasciata sapientemente consigliare. Cosa fare, tuttavia, lo sapeva fin dal principio, ed è questo il dato più sorprendente di Unbroken: una grande chiarezza di visione, che si è tradotta in scelte estetiche ben precise e uno stile che - in accordo con il protagonista della storia - è classico, pulito, rigoroso.
Armata di storyboard, la Jolie non ha fatto tre film in uno, come sostengono alcuni, ma un film le cui diverse parti scivolano fluidamente l'una dentro l'altra, accomunate da un'impressionante cura del dettaglio e da un realismo mai di maniera.
Perché allora Unbroken non convince fino in fondo? Cos'è che ci impedisce di soffrire insieme al povero Louis?
Il problema è proprio nella costruzione del personaggio principale, che non molla ma poco vacilla e che, sostanzialmente, rimane sempre uguale a se stesso.
E' in questa semplificazione della psicologia del protagonista che si vedono i rimaneggiamenti che ha subito uno script che è passato addirittura per le mani dei Coen. E poi, senza giocare alle citazioni per forza, ci sembra di cogliere un po' troppo l'influenza di Clint Eastwood, da cui Angelina ha imparato l'epicità del racconto, ma non la lucidità, la spietatezza e il coraggio di essere “contro”. Zamperini, insomma, non è scomodo come il cecchino Chris Kyle, e non c'è bisogno che lo sia, ma al personaggio manca il mistero.
Detto ciò, Angelina Jolie è una brava regista. Purtroppo, almeno per adesso, le mancano l'opinione forte e la zampata che contraddistinguono un autore.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali