Una storia senza nome: recensione del film di Roberto Andò con Micaela Ramazzotti presentato al Festival di Venezia 2018
La scrittura di un film che si ispira a un fatto di cronaca.
La creazione di un’opera artistica, e come si inserisca in una dinamica di verità, è una delle tematiche care a Roberto Andò. Lo dimostrano lavori passati come Il manoscritto del Principe o Sotto falso nome, i suoi primi due film. Lo conferma ora con Una storia senza nome, mirando a un equilibrio fra trama gialla e divertissement intellettuale, mettendo in scena la lavorazione di una sceneggiatura e le complesse dinamiche produttive che la portano poi realizzata al cinema. Un viaggio lungo tutta la fase realizzativa, dalla crisi creativa di uno sceneggiatore Don Giovanni e cialtroncello, come Alessandro Gassman in un ruolo ormai a lui molto caro, per concludersi con l’anteprima del film poi realizzato. Nel mezzo una Micaela Ramazzotti, giovane segretaria ma in realtà sceneggiatrice in disguise con tanto di occhiale alla Clark Kent, pronto toglierselo quanto da timido anatroccolo diventerà convinta investigatrice.
Perché Una storia senza nome utilizza un fatto di cronaca, il furto di un quadro di Caravaggio, la Natività, per costruirgli intorno un meccanismo pieno di carambole e dal sapore giallo. Ci penserà, infatti, un misterioso personaggio a suggerire alla sceneggiatrice in incognito una bella storia, raccontando come sia stata la mafia a rubare a Palermo il quadro dal valore inestimabile.
Cinema nel cinema, realtà contro l’immaginazione che cerca disperatamente di eguagliarne la portata universale. Insomma, materiale scottante perché a rischio banalizzazione o autoreferenzialità. Purtroppo stonano a maggior ragione, quindi, delle inverosimiglianze di sceneggiatura che rendono questo viaggio nel mondo della creazione più un balletto senza troppa consequenzialità, fra bozzetti e personaggi, fino a inserire nella dinamica principale tutti i vari partecipanti, anche quelli inizialmente di contorno.
Non mancano Laura Morante nei panni della madre della Ramazzotti con amicizie nel mondo della politica, utili allo svelamento del caso. Il giallo è un genere e richiede l’utilizzo di un certo rigore nell’applicarne la formula, che non si confonda la leggerezza con la superficialità, mentre Una storia senza nome prosegue inseguendo l’imprevisto senza troppo preoccuparsi di renderlo credibile narrativamente. Una pausa di leggerezza che si dissolve in vacuità, per Andò, che altre volte aveva meglio gestito il registro della tensione.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito