Una fragile armonia - la recensione del film
Un bel gruppo d'attori nel convincente esordio del documentarista Yaron Zilberman
Non è facile raccontare ai profani il mondo della musica classica, dal punto di vista di chi fa della propria passione una professione ad alto livello. Si rischia di risultare ostici, saccenti, noiosi, di far sentire escluso chi non ha l'orecchio o la cultura musicale necessari per apprezzare certe sfumature. Questo rischio non lo corre Yaron Zilberman - premio Oscar per il documentario Watermarks - col suo primo lungometraggio di finzione, che riesce a evitare sia la trappola del film di nicchia che quella di banalizzare la musica per renderlo fruibile a tutti.
Il quartetto al centro della pellicola suona insieme da 25 anni e per un quarto di secolo è miracolosamente sopravvissuto a lutti personali e cambiamenti. Resta però pur sempre composto da esseri umani: per quanto innamorati possano essere della loro arte e della loro professione, sono pur sempre fallibili e poggiano su un equilibrio molto precario. Tra i quattro individui di talento che suonando in gruppo hanno accettato di non rifulgere individualmente, c'è chi vede nel cambiamento un'occasione di rivalsa umana e professionale e il dramma del violoncellista col Parkinson che chiede di essere sostituito diventa l'occasione per una scatenata battaglia senza esclusione di colpi tra gli ego dei tre (più la figlia di due di loro). Risentimenti famigliari, amori mai sopiti, improvvise quanto inopportune passioni e ambizioni represse esplodono, fino a mettere a rischio la continuazione del rapporto professionale del gruppo.
Non è una storia originale in sé, quella che ci racconta Zilberman, ma lo è il modo con cui, un movimento dopo l'altro, va a comporre una sinfonia senza pause, analoga al Quartetto per archi 131 di Beethoven attorno al quale ruota tutto il film. Come in La Sonata a Kreutzer, qua la composizione del grande musicista diventa protagonista, simbolo di una perfezione cui la maggior parte degli esseri umani può solo aspirare. La musica è strettamente intessuta all'azione del film e anche quando i protagonisti parlano è come se suonassero, a volte in modo rabbioso e disarmonico, altre con l'allegria della passione.
E' davvero un bell'esordio questo film, complesso e raffinato sotto l'apparente semplicità. A dargli forza, oltre all'impeccabile scrittura, sono i suoi straordinari attori, soprattutto il violinista ossessionato e represso interpretato da Mark Ivanir, il secondo violino frustrato, un po' meschino e infedele del sempre impeccabile Philip Seymour Hoffman e il - consentitecelo - meraviglioso Christopher Walken, che recitando per sottrazione resta sullo sfondo riuscendo tuttavia a dare senso e coesione con la sua straordinaria presenza a un'opera corale. Oltre al livello della recitazione, l'ambientazione newyorkese ci ricorda a tratti – in versione più ironica ed ebraica – il cinema di John Cassavetes, per cui ancora oggi proviamo nostalgia.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità