Una famiglia: recensione del dramma di Sebastiano Riso con Micaela Ramazzotti in concorso al Festival di Venezia 2017

04 settembre 2017
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Una coppia di professionisti dell'adozione illegale.

Una famiglia: recensione del dramma di Sebastiano Riso con Micaela Ramazzotti in concorso al Festival di Venezia 2017

Il regista siciliano Sebastiano Riso è stato lanciato dalla presentazione del suo primo lungometraggio, Più buio di mezzanotte, alla Semaine de la critique di Cannes. La storia reale di una drag queen e della dolorosa relazione con la famiglia che non accettava la sua omosessualità, lascia spazio in questo suo secondo lavoro, Una famiglia, alla vicenda di chi la maternità è costretta solo a veicolarla per qualcun altro. Affidandosi di nuovo a Micaela Ramazzotti in un ruolo di madre, Maria, seppur di pasta totalmente diversa: una madre che non riesce pienamente ad essere tale, senza le morbide rotondità di chi l’ha goduta in pieno, e rimane tutta muscoli tesi e un fascio di nervi. Riso identifica un momento della sua vita, con il compagno Vincenzo, senza darci troppe spiegazioni di cosa sia stato di loro prima. Li troviamo intuendo come il patto che li lega, che a prima vita può sembrarci d’amore, è sul punto di rompersi. Un inizio silenzioso mette in scena una Roma periferica e anonima, grigia come tutti i personaggi di questo film in cui nessuno si salva, e chi vorrebbe farlo deve patire doppio: per la propria inazione e per aver non impedito quella altrui.

Maria porta avanti gravidanze per conto di ricchi clienti che non possono averne figli, anche per le complessità della regislazione italiana. I soldi che girano sono tanti, così come gli argomenti che Riso tratta, tutti importanti vuoti di civiltà nell’ambito dei diritti civili nell’Italia di oggi. Il problema è che troppe dinamiche sono affrontate con un cupio dissolvi sbrigativo, senza intravedere una possibile interruzione in questo ciclo, ormai routine che non fa neanche ricordare come sia nato il tutto. Una cappa nera che allontana lo spettatore, tanto quanto ambientazioni e dinamiche spesso poco credibili, personaggi ridotti a macchiette (come la coppia gay in cerca d’adozione) che non servono al meglio la doverosa causa per cui sono state inserite nel film.

Un terreno impervio, quello che differenzia una dramma senza sfoghi dal ridicolo involontario, superato nella parte conclusiva da un film smarrito che finisce per dimenticarsi dei suoi personaggi, lasciandoli in secondo o terzo piano, ostinandosi a mettersi in maggior risalto troppe cause che senza nessuno a rappresentarli diventano vuoti contenitori. Micaela Ramazzotti è ormai prigioniera dei ruoli di madre o donna disperata, dalla ricrescita ballerina e la recitazione febbrile, mentre il francese Patrick Bruel, qui scelto per “i suoi occhi buoni”, timbra il cartellino come esotico maschio seducente.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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