Un ragionevole dubbio - recensione del film con Samuel L. Jackson
Una buona premessa ma uno svolgimento prevedibile per il film firmato con uno pseudonimo da Peter Howitt.
Alcuni film hanno un iter misterioso. E' questo ad esempio il caso di Un ragionevole dubbio, scritto da uno sceneggiatore inglese che lavora da tempo a Hollywood, Peter A. Dowling, che parte da uno spunto in grado di dare vita a un thrille ad alta tensione, diretto da un connazionale – Peter Howitt – autore di successi come Sliding Doors e Johnny English e interpretato da due attori bravi e noti al pubblico come Dominic Cooper e Samuel L. Jackson.
Solo che alla fine il regista, come si faceva un tempo, disconosce il risultato finale firmandosi con uno pseudonimo (sarebbe curioso sapere perché abbia scelto il nome di Peter P. Croudins invece del tradizionale Alan Smithee). Con una facile battuta si potrebbe dire che l'unico ragionevole dubbio di tutta l'operazione è quello che è venuto a lui. Nell'impossibilità di contattarlo per chiedergli chiarimenti, proviamo a capire cosa funziona e cosa non convince nel film.
Pur senza cadere nel ridicolo in cui sono incorsi altri prodotti del genere, Un ragionevole dubbio perde presto per strada la plausibilità che una storia più rigorosa avrebbe garantito. I buchi di sceneggiatura abbondano e al bell'inizio, presago di un rovesciamento di fronte psicologico e narrativo, non corrisponde uno svolgimento in grado di tenere avvinti fino all'ultimo senza eccessivi cali di tensione. La durata stringata del film, del resto, non consente grandi approfondimenti e lascia con l'impressione di aver assistito alla lunga puntata autoconclusiva di un crime-show televisivo.
Ad esempio il fatto che il protagonista, un giovane e rampante procuratore distrettuale dalla vita perfetta, guidi in stato di ebrezza e travolga un pedone senza fermarsi a prestargli soccorso innesca una dinamica interessante costringendolo - per coprire la sua colpa - a occuparsi in tribunale del caso di un uomo accusato di aver ucciso la vittima dell'investimento, trovata morte nel suo furgone. Si tratta solo di omissione di soccorso che il responsabile non può confessare, pena la perdita di tutto ciò che ha più caro, a partire dal prestigio sociale, o dell'azione efferata di un serial killer di cui lui è stato inconsapevolmente testimone?
Ben presto, però, la premessa del film - che nonostante il titolo non è né un legal-thriller né un courtroom-drama - perde mordente con l'arrivo dei classici stereotipi del genere: l'assoluta facilità con cui un individuo letale penetra di notte nella casa del suo oppositore per disseminarvi indizi che lo possano incriminare, il fatto che il protagonista sapendo che la sua famiglia è minacciata non si premuri di dire alla moglie di chiudere a chiave almeno la classica porta sul retro dell'isolata villetta, la poliziotta scettica che all'ultimo minuto salva la situazione e così via.
Se Dominic Cooper è credibile nel ruolo di un uomo che teme di precipitare dalla cima del mondo su cui si è inerpicato e meno in quello di investigatore/giustiziere, Samuel L. Jackson, col suo gran mestiere, emana una sufficiente aura di minaccia come bogey-man della situazione. A conti fatti, forse capiamo perché Howitt abbia disconosciuto il film: un regista, alle prese con un thriller, desidera innanzitutto sorprendere se stesso e non c'è niente che uccida l'interesse creativo quanto la spietata logica della prevedibilità.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità