U.S. Palmese: la recensione del nuovo film dei Manetti bros.
Oramai archiviata l'esperienza cine-fumettistica della trilogia di Diabolik, i Manetti tornano con una commedia che parla di calcio, giovani presuntuosi e bagni di umiltà fatti in una scalcinata squadra dilettantistica della Calabria. Un feel good movie un po' confuso e non troppo originale. La recensione di U.S. Palmese di Federico Gironi.
Un film abbastanza recente e non del tutto riuscito che si chiamava Chi segna vince raccontava la storia di un allenatore di calcio, ex giocatore di successo, che complice il suo cattivo carattere veniva spedito dalla sua federazione (la statunitense) a fare il CT della scarsissima nazionale delle Samoa Americane.
In U.S. Palmese, invece, si immagina che, per iniziativa di un visionario e sognatore Rocco Papaleo, un’intera cittadina - la calabrese Palmi, appunto - faccia la colletta per portare a giocare nella squadra locale un talentuosissimo ma viziato e aggressivo calciatore francese, che la sua squadra milanese non vuole più dopo che ha colpito con un pugno un avversario in campo e si è macchiato del reato di body shaming nel corso di una notte brava in discoteca. In un caso come nell’altro, come è ovvio che sia, l’esperienza di questi professionisti del pallone in una realtà “minore” avrà come risultato un benefico, se non salvifico, bagno d’umiltà.
Non è che i Manetti abbiano copiato Taika Waititi, ci mancherebbe. Anche perché tra i film ci sono differenze anche evidenti. Ma la sottolineatura andava fatta perché è chiaro come, come al regista neozelandese, anche ai fratelli romani il calcio interessa fino a un certo punto, è solo un pretesto per parlare di altre questioni. Che sono anche condivisibili, e da abbracciare con un certo qual entusiasmo.
Etienne Morville, il calciatore protagonista di U.S. Palmese, è il perfetto prototipo di buona parte di quello che non va in una certa idea di successo, non solo calcistico: fama e denaro che si tramutano in arroganza, disprezzo delle regole e del prossimo, ostentazione volgare del benessere, rinnegamento del proprio passato, dei propri valori e della vera identità.
Ovvio che il passaggio dalla serie A, i locali alla moda di Milano e le terrazze vista Duomo a una Palmi tutta Ape Piaggio, consessi di vecchi amici ai tavoli del bar e soprattutta una scalcinatissima squadra d’improvvisati calciatori avrà un impatto su Morville, che pure si porta dietro guardaroba da pagliaccio e Lamborghini verde. Un impatto dapprima negativo, poi, ovviamente, positivo.
E ovvio che il passaggio di Morville avrà anch’esso, nonostante tutto, una influenza benefica su Palmi, la sua squadra e i suoi abitanti (su tutti, ovviamente, il personaggio di Papaleo e quello di sua figlia, interpretata dalla modella Giulia Maenza, una bella scoperta).
Messaggio condivisibile, quindi. Buone e sincere, di sicuro, le intenzioni dei Manetti, che a Palmi hanno radici familiari, e per questo film sono partiti da ricordi personali. Ma di buone intenzioni sappiamo benissimo cosa sia lastricato, e allora ecco che il problema di U.S. Palmese - i suoi problemi, anzi - stanno in una costruzione troppo confusa, e nella perdita di efficacia delle situazioni messe sullo schermo.
Il fatto che molte, troppe delle scene di gioco vengano raccontate e girate come fossero spezzoni di episodi di Holly & Benji può far sorridere alcuni di quelli che si ricordano di quel cartone animato, ma è anche una furberia un po’ poco originale e non troppo divertente. I personaggi che circondano Papaleo a Palmi sono macchiette bidimensionali e la sottotrama legata all’omosessualità della figlia appoggiata in maniera un po’ artificiosa sul grosso del racconto.
Come commedia, U.S. Palmese sembra ricalcare il gioco della squadra che racconta: manca di ritmo, di sostanza, ma anche una direzione chiara. Come racconto morale è un po’ esile, e dagli esiti un po’ contraddittori, se il succo era quello di non inseguire la vittoria a tutti i costi, ma quello di rimettere l’elemento umano al centro della storia. Si affida a un talento individuale (quello di Max Mazzotta, nei panni dell'esuberante allenatore) che solo troppo tardi riesce a trascinare con sé il resto del gruppo.
Poi certo, non è che si stia parlando di un film che irrita o che provoca antipatia. Anzi. Di elementi di simpatia, da Papaleo in giù, ce ne sono tanti.
Ma forse proprio per questo a più riprese fa cadere le braccia, a forza di - scusate la metafora - sprecare potenziali occasioni da gol, e di perder tempo con giochetti estemporanei che hanno più a che fare con la voglia di fare i fenomeni (come pure i Manetti, nella loro ironicissima modalità pop, sanno fare), che non con la voglia di fare risultato con il bel gioco.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival