Tutto sua madre - la recensione dell'esordio del francese Guillaume Gallienne
La stralunata e divertente storia dell'affermazione della propria unica personalità
Dopo anni di onorata carriera come attore al cinema e a teatro, dove ha ottenuto ottimi successi con la prestigiosa Comédie Française, Guillaume Gallienne esordisce alla regia cinematografica raccontando una storia sentita, intima, l’adattamento del proprio spettacolo teatrale "Les Garçons, et Guillaume, à table". C’è molto di autobiografico in Tutto sua madre - normalizzante traduzione del più descrittivo titolo originale- che ci racconta di tre figli ben diversi.
Guillaume è un ragazzo che cresce con due fratelli belli, sportivi, muscolosi, simboli di mascolinità, mentre lui si ritrova a sognare le grandi donne della sua vita, in prima battuta la madre, immaginandosi nei panni di una nobildonna del ‘700 in un sontuoso palazzo o divertendosi a imitarne la voce ingannando il sempre più perplesso padre, arcigno e preoccupato per l’educazione troppo femminile del figlio.
La chiave della messa in scena di Gallienne è molto particolare, sincopata, unisce momenti con lui sul palco di un teatro intento a recitare il suo monologo a continui cambi di luogo, senza preoccuparsi del rispetto cronologico o della verosimiglianza. Ecco, una delle forze dirompenti di questo film è anche la credibilità di una vicenda in fondo inverosimile, di come un 41enne riesca a farci coinvolgere interpretando un ragazzo, oltre che la madre, in maniera esilarante, auto ironica, ma piena di pudore.
Il giovane Guillaume durante le estati, invece di andare a fare sport con i fratelli, va in giro per l’Europa: impara a ballare alla sivigliana sulle note di Julio Iglesias in Spagna, in un collegio inglese prende il tè con famiglie eleganti innamorandosi dello sportivo Jeremy, mentre in Germania si fa massaggiare da improbabili artisti della mano pesante.
Tutto sua madre è un racconto sulla ricerca dell’identità, su quella fase spiazzante ed esplorativa che è l’adolescenza, sulle apparenze che spesso ci ingannano e ci portano a trovare delle risposte semplici a domande complesse. Crescere vuol dire anche affrontare le proprie paure, sottoporsi a una serie di prove di iniziazione che ci sembrano terribili come domare un cavallo. Un inno alla femminilità, un atto d’amore verso le donne, senza la rabbia anarchica post franchista di Almodovar. Come dice Guillaume nel film “la più grande differenza delle donne è il loro respiro, che fa battere il mio cuore all’unisono”.
Non è un’educazione sessuale, ma un’educazione sentimentale in pieno stile, che spinge una zia a dire al protagonista che “tutto inizia quando ti innamori: se è una donna sei etero, se è un uomo sei omosessuale”. Semplice, no? Tutto è messinscena. La vita lo è, a maggior ragione il teatro. La sfida è cogliere le sfumature che li distinguono, perché ognuno ha qualcosa di unico e troppo facilmente finisce invece incasellato in una categoria, ma per fortuna si può essere talmente “omosessuali da diventare lesbiche”.
Uno sforzo di comprensione che dura un film intero, che ci diverte con tenerezza e a tratti con un umorismo demenziale, ma che alla fine ci spiazza con un ultimo sentito passaggio sul palco, senza maschera, con l’intimità sofferta di chi dopo imprevisti e incomprensioni ha il diritto all’applauso finale, a un mazzo di rose. La crescita, infatti, passa anche per il superamento dell’amore assoluto di una madre per un figlio, che si libera di un legame paralizzante regalandole in cambio, come pegno d'amore, la ricchezza di una conoscenza più profonda.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito