Tito e gli alieni: recensione della fantascienza poetica di Paola Randi con Valerio Mastandrea

06 giugno 2018
3.5 di 5
46

Nelle sale dopo la presentazione al Torino Film Festival.

Tito e gli alieni: recensione della fantascienza poetica di Paola Randi con Valerio Mastandrea

Chi lo dice che il cinema richiede complessità, quando riesce a specchiarsi nella vita, nella sua semplicità e nel suo eterno ritornare sempre sulle medesime dinamiche. Certo, bisogna rispettarlo, il cinema, ricordarsi come sia un’arte eminentemente visiva e lasciar perdere gli spiegonii, le scene madri o le parole affastellate una sopra l’altra in infiniti e dimenticabili film didascalici. Paola Randi, a otto anni dall’esordio Into Paradiso, totalmente diverso, dimostra come la fantasia possa salvare il mondo, almeno quello del (nostro) cinema, partendo da un’immagine molto personale per disegnare un ritratto dallo schema semplice semplice: un uomo deve superare, a distanza di molti anni, la morte della moglie, che l’ha portato a rinchiudersi in se stesso e nel passato.

In Tito e gli alieni lo fa utilizzando la fantascienza, e il suo frenetico sovrapporsi di passato, presente, di morte e vita, con l’infinito che neanche si accorge di noi. Il professore, un magistrale Valerio Mastandrea, scandaglia da anni lo spazio profondo alla ricerca della voce della moglie scomparsa, nel mezzo del deserto del Nevada. La staticità della sua depressione esplode in un improvviso moto di energia quando arrivano i due nipoti, a cui è appena morto il padre, fratello del professore. 

La situazione genererà una reazione chimica fra le due perdite, e le due generazioni, in grado di iniettare la purezza di un bambino, convinto di poter ancora parlare al telefono col padre morto, nella passività dell’adulto. Il risultato sarà un viaggio pieno di trovate visive e profondità, mai ricattatorio o didascalico, sempre misurato ma ambizioso, capace di farci guardare in alto con speranza, in un’epoca in cui siamo sempre con gli occhi a terra o sullo schermo del telefonino. Ci porta nel regno della fantasia e in uno spazio che somiglia a uno sconfinato e laico luogo depositario della memoria. Sorprendente e coraggioso, Tito e gli alieni regala qualcosa di molto diverso con cui avere a che fare, prima divertendoci per l’eccentricità di luoghi e personaggi, poi coinvolgendoci sempre più emotivamente, commossi senza quasi rendercene conto.

Parlando di memoria, il film della Randi rievoca molti immaginari di cui tutti siamo nutriti, da quello cinematografico fantascientifico, fra Spielberg e la tecnologia vintage di WALL-E, a quello del deserto, con la sua spiritualità irrituale e l’Area 51, diventata una porta di comunicazione - sognata e utopistica - sugli alieni e quindi sul sogno di un universo meno solitario e più affollato. Nato dal coraggio e dall’incoscienza della regista e della giovane produttrice Matilde Barbagallo, Tito e gli alieni è un piccolo film a cui voler bene, capace di conquistare per la sua universalità, che dimostra come le idee, la creatività e la passione valgano molto più di un budget sostanzioso. Se l’elegante e un po’ folle presenza di Clémence Poésy convince, come di consueto, una bella sorpresa sono i due esordienti, due talenti grezzi e promettenti: l’adolscente Chiara Stella Riccio e il piccolo Tito, Luca Esposito.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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