Timbuktu - la recensione del film di Abderrahmane Sissako
Il cinema africano migliore, quello legato alla cultura e al territorio senza pauperismi o forzature etniciste
Un tempo, si nominava Timbuktu (o Timbuctù, secondo la nostra grafìa) per indicare un posto lontanissimo ed esotico. Con il film di Abderrahmane Sissako, l'antica città del Mali diventa invece luogo di sintesi e simboli di questioni centralissime nel mondo globalizzato di oggi.
Timbuktu, il film, racconta della lenta, vagamente grottesca e progressivamente drammatica presa del potere all'interno della città e nelle zone adiacenti di un gruppo di jihadisti che impongono la sharia, proibendo musica e sport, obbligando le donne al velo e non solo, diffondendo il terrore e contagiando lentamente con la violenza lo spirito libero e riflessivo di molti personaggi.
Quello di Sissako, però, non è affatto un film di denuncia urlato e aggressivo; non mira a scandalizzare lo spettatore occidentale con l'uso della violenza o mostrando gli eccessi della repressione. Scritto e girato con grande consapevolezza, mille miglia lontano dai pauperismi e di naturalismi esasperati di troppo cinema africano e semmai fin troppo smaliziato, Timbuktu è al contrario un film che fa propri gli spazi e i tempi - dilatati ma mai molli, sereni ma mai ingenui - di quello spicchio di terra che racconta, cedendo solo lentamente e con riluttanza a quel nervosismo che gli è imposto dal suo stesso racconto.
Sissako dosa con sapienza i suoi ingredienti, riuscendo a bilanciare l'assurdo, il comico e il tragico dell'imposizione miope e violenta di un credo e una cultura che "miopi e violente non sono affatto, regalando spazi di distensione e momenti di una tensione più mentale che fisica, utilizzando senza inutili estetismi le bellezze dei luoghi e della musica che lì ha origine (basti citare il bellissimo Talking Timbuktu) di Ali Farka Touré e Ry Cooder).
Ma soprattutto, evitando di strillare proclami, o abusare nel mostrare violenza, o di correre inutilmente, Timbuktu trasmette tutta la dignità di alcuni suoi personaggi, la loro cultura, la loro riluttanza e la loro sofferenza, così come le contraddizioni e le chiusure di altri. E, in un finale di certo non roseo ma comunque aperto, lascia la speranza che certe fughe possano trasformarsi, se non in ritorni, in nuove partenze.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival