The Wolfpack, recensione del documentario che racconta la straordinaria storia dei fratelli Angulo
Vissuti chiusi in casa fino all'adolescenza, con solo il cinema a raccontargli il mondo.

Le storie sono lì fuori. Sono tantissime, pronte per essere scovate e raccontate. Certo, la storia di The Wolfpack è decisamente più particolare di altre, ma era comunque lì, e Crystal Mozelle l'ha colta al balzo quando ha incontrato per strada i sei ragazzi Angulo vestiti come fossero appena usciti da Le iene, e gli ha chiesto chi fossero. Così ha scoperto che quegli adolescenti avevano vissuto una vita letteralmente chiusi in casa, senza contatti col mondo esterno (nemmeno quello virtuale) se non quello mediato del cinema consumato - e riprodotto - ossessivamente; che solo da poco avevano deciso di contravvenire ai diktat di un padre anarchico ma autoritario, e di iniziare a mettere il naso, e i piedi, fuori dalle loro quattro mura.
Le storie stanno lì, pronte per essere raccontate: e il problema allora è solo quello. Raccontarle, appunto. Raccontarle per bene, come si deve, avendone rispetto, e rispettando chi le deve ascoltare.
È questione di talento, di stile e di sguardo, certo; ma anche – magari un po' meccanicamente – di misura e di distanze. Perfino di umiltà, nel sapere quanto supporre di sapere, quanto in(ter)ferire, quando modellare e guidare a proprio uso e consumo.
Crystal Mozelle, la misura e le distanze, le ha prese a modino. E se ha modellato, ha modellato il racconto sulle figurine del cinema e dei generi, non certo la storia, il contenuto, le vite dei ragazzi Angulo, tutti chiamati con nomi in sanscrito da un padre che voleva essere Krishna. E invece gli Angulo sono figli del cinema, nel cinema sono vissuti e sopravvissuti e col cinema, nel segno degli anni Ottanta che non sono mai finiti e di ricostruzioni amatoriali e spettacolari dei film più amati piene di props fatti di scotch e cartoncino, come a voler suscitare la massima invidia di quel Michel Gondry che hanno superato non avendolo mai conosciuto.
Tutto dentro, tutto in casa, sempre: e allora fa bene la Mozelle ad affidarsi alle luci (solari) dei sorrisi, sorprendenti e spiazzanti, invece che alle ombre dei traumi e delle lacrime, sempre invisibili, sempre sullo sfondo, come un padre che non è mai dipinto come un mostro ma che, alla fine, è letteralmente dipinto come quel dio che sognava di essere e che non è mai diventato: solo la sua metaforica, liberatoria e catartica caricatura.
Una maschera, quella di Oscar Angulo, come le tante maschere indossate dai suoi figli nel tentativo di non impazzire grazie al cinema, come le maschere di quell'Halloween che tanto amano .
Le maschere, Halloween: tutto parte (e finisce) da lì: “End of the Beginning”, come cantano i Black Sabbath. Dalla maschera di Michael Myers indossata da Mukunda la prima volta che è uscito di casa da solo, maschera realizzata per celebrare in casa quell'Halloween che, alla fine di The Wolfpack, gli Angulo tutti festeggiano senza più indossare travestimenti in un frutteto, tra le zucche, in quel mondo che non è ancora troppo tardi per poter conoscere e conquistare.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival