The Sessions - la recensione del film con Helen Hunt e John Hawkes
Un film indipendente americano in cui tutto ha il sapore della verità, a cominciare dal regista, Ben Lewin, colpito anch'esso dalla poliomelite da ragazzo.
Lo confessiamo da subito: siamo sempre leggermente prevenuti nei confronti dei film tratti da storie vere, specialmente quando i protagonisti sono persone afflitte da disabilità tanto gravi da rendere quasi impossibile, per noi fortunati, la capacità di immaginarle. Sono storie che si prestano al ricatto morale e alla retorica e chiedono allo spettatore un coinvolgimento estremo, ma che al tempo stesso, data la componente di finzione dello spettacolo cinematografico, lo distanziano: in fondo sappiamo che quelli sullo schermo sono solo attori, bravissimi e credibili, ma che – per quante ricerche possano fare per il ruolo – indossano il personaggio come qualsiasi altro, e possono spogliarsene una volta terminato il film.
Nel caso di The Sessions, però, questo pericolo è scongiurato: la storia raccontata è vera, il protagonista, Mark O'Brien, è scomparso nel 1999 ma ha lasciato resoconti scritti e un documentario breve sulla sua vicenda premiato con l'Oscar mel 1997, nonché le testimonianze di chi l'ha conosciuto e amato, inclusa l'autobiografia della sua partner surrogata Cheryl Cohen-Greene. Il regista Ben Lewin, che ha scritto la sceneggiatura ispirato da un articolo pubblicato sul Sun dallo stesso O'Brien, è stato anch'esso vittima della poliomelite che lo costringe oggi a camminare con le stampelle. Certo sembra niente, rispetto alla malattia che ha paralizzato dal collo in giù il giornalista e poeta, che per 49 anni ha vissuto e lavorato grazie all'ausilio di un polmone d'acciaia. Ma sicuramente l'esperienza della disabilità ha dato a Lewin la giusta sensibilità per affrontare l'argomento.
La Berkeley del 1988 ci appare un luogo liberale e ben organizzato: a un italiano può sembrare incredibile la naturalezza con cui le persone che orbitano intorno a Mark, compreso il sacerdote cattolico, siano aperte e disponibili al discorso della sessualità come diritto di ogni essere umano e si dimostrino d'accordo sul suo uso di un sex surrogate, quando da noi di certe cose si parla solo sottovoce.
Ma non c'è davvero niente di inventato in questa storia, e se il film, da un punto di vista cinematografico, non è un capolavoro, ne apprezziamo il messaggio, il senso dell'umorismo e soprattutto le interpretazioni dei due protagonisti. Helen Hunt dimostra il coraggio - rarissimo in un'attrice hollywoodiana alle soglie dei cinquant'anni - di mostrare il suo corpo senza trucchi e senza orpelli e John Hawkes è assolutamente irriconoscibile, splendido e vulnerabile in un ruolo in cui, di pari passo con l'abbandono e la deformazione del corpo, cresce l'espressività del volto e dello sguardo. L'Academy stavolta ha preferito candidare all'Oscar Helen Hunt. Può essere un suggerimento rivolto a Hollywod, perché prenda spunto dal cinema indipendente e offra ruoli diversi e più realistici alle molte - e bravissime - attrici americane over 40.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità