The Old Oak: la recensione del film di Ken Loach in concorso al Festival di Cannes 2023

26 maggio 2023
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Loach scarta da quella programmaticità un po' artificiosa che aveva caratterizzato le ultime opere con un film semplice e commovente sulle grandi questioni del presente, in perfetto equilibrio tra la necessità di raccontare le cose dure e brutte della vita, e quella di mantenere la speranza. La recensione di The Old Oak di Federico Gironi.

The Old Oak: la recensione del film di Ken Loach in concorso al Festival di Cannes 2023

L’Old Oak è un pub. Il pub di un piccolo villaggio inglese a due passi dal mare nella contea di Durham, a due passi da Newcastle. Nord-est inglese. Zona, un tempo, di miniere. Miniere e minatori di quelli che, negli anni Ottanta, ingaggiarono un durissimo braccio di ferro con Margaret Thatcher. Perdendolo. Facevano squadra tra loro, le famiglie dei minatori in sciopero. In una sala oramai chiusa e abbandonata dell’Old Oak, tra le foto di quegli anni, c’è un motto: “If we eat together we stick together”: se mangiamo assieme, rimaniamo un gruppo unito.
Le miniere oramai non ci sono più, e il villaggio è preda di una povertà che, come si dice a un certo momento nel film, non è accettabile in uno dei paesi più ricchi del mondo.
Lì, in quel villaggio, vengono collocate alcune famiglie di profughi provenienti dalla Siria, e la reazione è facilmente immaginabile, anche in Italia: perché - lo dice, ancora una volta il film - è tanto più facile sfogare problemi e frustrazioni con chi sta peggio di noi, con chi possiamo calpestare, invece che prendercela con chi sta in alto.
C’è però un uomo a fare eccezione: TJ Ballantyne, il padrone di quel vecchio pub malmesso e con pochi, arrabbiati clienti. TJ ha avuto la sua razione di problemi, nella vita, ma non ha dimenticato gli insegnamenti del padre minatore e della madre, quella del motto appeso nella sala grande. È lui che stringe amicizia con la più intraprendente delle siriane arrivate nel villaggio, quella che parla inglese ed è appassionata di fotografia, Yara. E sarà lui, vincendo resistenze, e sfidando certi vecchi amici o presunti tali, a fare qualcosa di concreto, per quelle famiglie nuove e per quelle altre che se la passano male, nella loro comunità.

Comunità. È questa la parola chiave di The Old Oak, che sul pressbook risulta giustamente come “un film di Ken Loach e Paul Laverty”, visto che la sceneggiatura di questo film è notevole e fondamentale. Perché non è solo un film sul razzismo quello di Loach e Laverty. In più, quando lo è, lo è nella misura in cui parla di un razzismo che ha poco a vedere con l’ideologia, il colore della pelle e la lingua di qualcuno, ma piuttosto con quanti soldi si hanno nel portafogli.
Quello che Loach e Laverty raccontano, attarverso questa storia davvero incredibilmente universale, è vedere come da quarant’anni a questa parte il tessuto sociale si sia disgregato sotto le spinte dell’economia liberista, e parole come comunità e solidarietà si siano sbriciolate anche e soprattutto in quei luoghi dove un tempo erano centrali. Fondative.
Negli ultimi anni e negli ultimi film, in film come Io, Daniel Blacke e Sorry We Missed You, Loach aveva mostrato quello che ritenevo e ritengo uno schematismo ideologico troppo rigido, e poco cinematografico. Certo, partiva sempre da questioni oggettivamente sacrosante, e le affrontava con condivisibile passione, ma la sua voglia di denuncia e il suo sdegno si trasformavano in una programmaticità di struttura e sventure che finiva col creare un distacco con quanto avveniva sullo schermo. Che faceva la voglia di dire all’inglese, in qualche modo, “Ken, anche meno”.
Qui, in The Old Oak, Loach e Laverty hanno ritrovato un equilibrio invidiabile e una semplicità e forza di racconto commovenie.
Nel film si sono tutte le realtà dure e assurde della nostra contemporaneità, anche quelle con cui tanti di noi si scontrano tutti i giorni: la guerra (le guerre, anche fra poveri), i problemi economici, le frustrazioni, i dolori privati, l’egoismo e il razzismo di alcuni. Eppure, The Old Oak racconta anche come conservare il barlume della speranza, della vita, sia l’unico modo per andare avanti, e migliorare le cose. Senza mai miracoli irrealistici, tra difficoltà, ostacoli, scetticismi, stanchezze e il sorriso velenoso di chi vorrebbe solo che le cose non cambiassero mai per continuare a lamentarsi, ma con risultati chiari, e possibili.

Loach e Laverty ricordano l’orrore e lo scandalo di una guerra, quella in Siria, atroce e colpevolmente dimenticata dall'Occidente e, sebbene non tralascino affatto le problematiche di casa loro, ci ricordano che chi fugge da qualcosa del genere sta comunque peggio di noi, quali che siano le nostre condizioni. Raccontano che attorno a un tavolo, condividendo lo stesso cibo, ci si può conoscere e ci si può comprendere.
Chi non vorrà farlo ci sarà sempre, ma una volta stabilito quel legame, sarà difficile farlo spezzare. E se il legame non si spezza, se la comunità è ricostruità, per il futuro c’è speranza.
E questa volta, alle tematiche di cui abbiamo sempre più bisogno, i due associano un cinema semplice, limpido, pulito, equilibrato e realistico nel mostrare le luci e le ombre, i guai e le sorprese positive. Senza mai insistere troppo, in un caso come nell’altro, sapendo sempre quando è il caso di allontanare la macchina da presa, di far tacere qualche personaggio, lasciando che negli spazi lasciati liberi sia la nostra partecipazione, e la nostra commozione, a farsi avanti prepotente.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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