The Legend of Ochi, la recensione del personale film di Isaiah Saxon

06 maggio 2025
3.5 di 5

Già regista di video musicali anche per Björk, Isaiah Saxon debutta con un lungometraggio che non è solo un omaggio al cinema fantasy per famiglie stile anni Ottanta: The Legend of Ochi ha uno stile che nobilita la sostanza e spiazza le aspettative.

The Legend of Ochi, la recensione del personale film di Isaiah Saxon

Su un'imprecisata isola del Mar Nero, una ragazzina di nome Yuri (Helena Zengel) non s'intende proprio con suo padre Maxim (Willem Dafoe), leader di un'improbabile task force che dà la caccia agli Ochi, creature presumibilmente minacciose che infestano la zona. Yuri è sola, perché suo fratello Petro (Finn Wolfhard) sembra prendere le parti del babbo, mentre sua madre Dasha (Emily Watson) li ha abbandonati tempo addietro. Quando s'imbatte in un cucciolo sperduto di Ochi, decide di comportarsi come non fa nessuno: proteggerlo e far sì che si ricongiunga ai suoi genitori. Ma forse il tragitto dell'animale è speculare al suo...

The Legend of Ochi è uno di quei film che può aprire gli occhi su un concetto non poi così ovvio: in un'epoca che scompone e analizza le storie, all'inseguimento di un nerdico rigore logico, il lavoro di Isaiah Saxon, già regista di video musicali anche per Björk, ci ricorda quanto in un'opera d'arte non solo la forma sia inscindibile dalla sostanza... ma possa costituire la vera e propria sostanza, in barba al raziocinio, costringendoci ad arrenderci alla manipolazione registica dei sensi. Non si spiega altrimenti perché, durante la visione di un fantasy per famiglie dalla trama così apparentemente scontata, abbiamo avuto la sensazione di guardare qualcosa di particolare e del tutto personale. Se ci si pensa, è un risultato persino superiore a quello di un'opera che magari cerca a tutti i costi un plot spiazzante. A Saxon, autore anche della sceneggiatura, sembra interessare relativamente.

I temi sono evidenti e già raccontati tante altre volte, lo ammettiamo: c'è una creatura narrativamente simile a E.T. (ma nell'estetica più simile ai Gremlins), mentre un essere umano stabilisce con essa una familiarità speciale. C'è il valore simbolico di quest'alleanza, che dà alla società intera la speranza di guardare alle proprie dinamiche in modo diverso, meno pauroso, meno schiavo dei pregiudizi. C'è una famiglia spezzata da ricomporre, con una figlia che richiama ai loro ruoli le proprie figure genitoriali. C'è anche un personaggio di mezzo, il fratello Petro (Finn Wolfhard, che ha comunque poche scene), sospeso tra i due modi di vedere la realtà, senza il necessario coraggio. Se fate parte di un pubblico un minimo navigato, sarete in grado di prevedere quello che accade dalla prima all'ultima scena. Ma riuscirete a prevedere come accade?

Il lavoro sull'immagine, il suono, la recitazione e i dialoghi non è assolutamente scontato. Saxon e il suo direttore della fotografia Evan Prosofsky hanno utilizzato ottiche Baltar della Bausch and Lomb risalenti agli anni Trenta, generando un tessuto particolare dell'immagine: con l'uso di mascherini vecchio stile, alcuni dei quali dipinti dal regista stesso, si è ottenuta una stramba visione iperrealista difficile da descrivere a parole. Le musiche di David Longstreth dei Dirty Projectors, per i quali Saxon aveva realizzato video, sono volutamente "invadenti", coprotagoniste di diverse sequenze: i flauti si rifanno alla tradizione musicale dei Carpazi e non rievocano quasi mai le consuetudini hollywoodiane alle quali siamo abituati.
All'autore non interessano molto i dialoghi, per cui le poche parole scambiate tra i personaggi ci chiedono di adattare la mente alle loro ossessioni: è particolarmente evidente nel caso del Maxim di Willem Dafoe e della Dasha di Emily Watson, entrambi intensi e straniati, come il film stesso. Helena Zengel poi, una sorta di Greta Thunberg senza la ribalta pubblica, rinchiusa in un privato asfissiante, regredisce allo stato ferino per interagire con l'Ochi: esplode in una visceralità bizzarra, aiutata molto dalla decisione di realizzare le creature con pupazzi e animatroniche, invece che in CGI.

La collisione tra le consuetudini della fiaba edificante e la libertà di regia di Saxon, per montaggio e sguardo, danno vita a un'opera quanto meno interessante: non manca qualche momento vagamente disturbante o quasi gore, con un gusto del grottesco nel "cinema per tutti", davvero cifra degli anni Ottanta. Ci è capitato di rado di vederlo recuperato con una tale convinzione e senza sottostare alla citazione più sterile. The Legend of Ochi ha il cuore ma non ha la carineria, stimola sempre la nostra attenzione e ci costringe a non liquidarlo facilmente, anche se trovassimo il plot scontato e non dovesse piacerci lo stile così marcato del suo regista. Una firma che a questo punto terremo d'occhio volentieri.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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