The Beekeeper: la recensione del film d'azione con Jason Statham
Giasone Staham at his best in un film che prende dritto di mira la situazione politica e sociale degli Stati Uniti di oggi. La recensione di The Beekeeper di Federico Gironi.
Jason Statham non parla: borbotta, grugnisce, gorgoglia.
Jason Statham non guarda: fulmina, saetta, pietrifica.
Jason Statham non chiede: ordina, dispone, detta ultimatum.
Soprattutto, Jason Statham mena. Mena come fabbro.
A mani nude, utilizzando oggetti a caso (dai telefoni alle valigette, passando per i computer e gli attrezzi più improbabili).
Certo, a volte Jason Statham usa anche le armi: bianche, o da fuoco. Ma, soprattutto, mena come un fabbro.
Quello di The Beekeeper è un Jason Statham al meglio delle sue possibilità, uno Statham che non contamina mai il suo incedere con dosi eccessive di ironia piaciona, limitando al minimo tutto quel che potrebbe fare o farlo sorridere. Anche perché, in The Beekeeper, Jason Statham è incazzato. E ha una missione.
È incazzato perché dei truffatori che prendono di mira anziani che hanno poca dimestichezza coi computer e col mondo digitale hanno svuotato i conti di una sua amica (“l’unica persona che si sia mai presa cura di me”), spingendola a togliersi la vita. E allora Jason - che in questo film va sotto il nome di Adam Clay, ma che comunque non è il vero nome del personaggio - parte in missione per vendicarla. Lo abbiamo sì conosciuto nelle prime sequenze come placido apicultore, ma veniamo presto a sapere che è un ex letalissimo membro di un’organizzazione paragovernativa nota come "Beekeeper", sorta di segretissimo organismo incaricato di mantenere gli equilibri della democrazia statunitense lì dove, e qualora, questi dovessero traballare. I Beekeper, per capirsi sono quelli di fronte ai quali se la fanno sotto anche alla CIA, figuriamoci all’FBI. Anche perché un solo beekeeper, specie se è Statham, gli uomini dei servizi segreti e gli SWAT team dei federali li sgranocchia come fossero bruscolini. La sua vendetta, quindi, sarà implacabile e inarrestabile.
Si sarà capito, insomma, che per gli appassionati di cinema di menare, e per i fan di “Giasone” Statham, The Beekeeper è un film in grado di offrire notevoli soddisfazioni, mettendo l’inglese in un ruolo che pare incorporare le caratteristiche di Rambo, di John Wick, di John McClane, di Paul Kersey e di Leon in un unico personaggio.
David Ayer, che prima di dirigere Suicide Squad (il primo) è stato autore di alcuni discreti e ruvidi noir metropolitani, sfrutta al meglio la maschera da duro di Statham, gira abbastanza bene le sequenze d’azione e si permette in almeno un paio di occasioni di sparare un paio di cartucce al neon di chiara matrice (cine)fumettistica che, se stonano un po’ nell’equilibrio generale del tutto, sono anche delle perdonabili eccentricità che smorzano il rischio di quel che poteva essere considerato un clima un po’ troppo cupo, specie considerati i tempi che corrono.
Già, perché per quando chiaramente esasperato e da certi punti di vista felicemente sopra diverse righe, il copione di The Beekeeper, firmato da Kurt Wimmer, è l’ennesima spia più o meno volontariamente accesa da Hollywood riguardo lo stato attuale della società e della politica americane.
Abbiamo detto che l’Adam Clay di Statham è un ex agente di un’organizzazione segretissima che non dipende da nessun organismo statale perché il suo compito è quello di correggere eventuali squilibri dell’ordine democratico. Non abbiamo ancora detto però, e speriamo che non sia considerato spoiler, che la vendetta di Statham sarà a tappe, verso l’alto della piramide economica e di potere di cui i truffatori che - attraverso l'utilizzo di un software riservato di data mining - hanno ridotto sul lastrico la sua amica rappresentavano il livello più basso.
Non abbiamo detto che, risalendo di livello in livello, Statham arriverà al vertice, un vertice che è rappresentato da un 28enne miliardario arrogante, borioso, umorale, immorale, alcolizzato e tossico, che non è solo una versione più o meno caricaturale di certo potere capitalista, ma accade anche essere, nel film, il figlio della Presidente degli Stati Uniti, messo dalla donna a capo dell’azienda multimiliardaria di famiglia dopo la sua discesa in politica e la sua elezione. Un’elezione che, guarda un po’, potrebbe essere stata aiutata da fondi illeciti provenienti da quel tipo di truffe che stanno all’origine della vendetta di Adam Clay.
Il punto, in The Beekeepers, è che la vendetta privata del suo protagonista, la sua ideologia e la situazione socio-economico politica in cui si muove trovano una coincidenza assoluta. Magari fin troppo evidente e tirata per i capelli, certo, ma non dimentichiamoci che questo, prima di tutto, è un film che si guarda per vedere Jason Statham menare le mani.
Eppure, al tempo stesso, si accende quella spia cui già ho accennato: senza andare troppo indietro nel tempo (ma si potrebbero citare certe vittorie elettorali di George W. Bush), tra i disastri della presidenza Trump e le accuse mosse di continuo a Hunter Biden, figlio dell’attuale POTUS, e con le elezioni alle porte, è chiaro che l’America provi delle serie e legittime preoccupazioni per il suo assetto democratico.
Peccato (o, meglio, per fortuna) che, nella realtà, non esista uno Jason Statham in grado di raddrizzare le cose a forza di cazzotti e arti marziali, un Adam Clay che, un po' conservatore e vagamente luddista, ci metta in questo modo al corrente dei rischi del mondo digitale. Nella realtà servono però lo stesso impegno e la stessa responsabilità del nostro Adam Clay: senza violenza ma con una pratica costante di impegno civile e politico, di rivolta contro i torti, le ingiustizie e le sperequazioni di una società sempre più squilibrata.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival