Tanna - la recensione del film australiano candidato all'Oscar

28 aprile 2017
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Immagini mozzafiato e un tema classico, ispirato a una storia vera, in un film il cui unico effetto speciale è la natura.

Tanna - la recensione del film australiano candidato all'Oscar

In un periodo come questo, quando le distribuzioni fanno le pulizie di primavera ed escono all'incirca 14 film a settimana, chi non ha la voglia o l'età per vedere i soliti blockbuster deve fare molta attenzione: accanto a fondi di magazzino dimenticati dalla stagione precedente e piccole uscite che non hanno trovato spazio prima, ci sono autentiche perle, che meritano di essere cercate con pazienza. Una di queste è sicuramente Tanna, premio del pubblico alla Settimana della critica di Venezia 2016 e candidato agli Oscar come miglior film straniero in rappresentanza dell'Australia. Distribuito dalla neonata e già benemerita Tycoon a cui si deve l'arrivo nelle nostre sale del gioiellino Mister Universo, Tanna è un film che riporta in sala il senso della meraviglia, ricorrendo ad un unico effetto speciale: la Natura.

Il film nasce dalla passione dei documentaristi Martin Butler e Bentley Dean, che si sono trasferiti con le loro famiglie sul posto e hanno deciso di coinvolgere gli abitanti della tribù Yakel, che vive ancora secondo le arcaiche leggi del Kastom, nel loro primo film di finzione. Si tratta di un singolare innesto tra dramma e antropologia: se è vero che la storia dei tragici amanti ripropone nel Pacifico il dramma di Romeo e Giulietta, lo è anche che si tratta di una delle opere di Shakespeare purtroppo più attuali: da qualche parte, nel mondo, c'è ancora chi non può amarsi liberamente ma viene diviso da motivi politici, differenze religiose e faide famigliari. La storia raccontata nel film trae origine da un fatto accaduto nella comunità nel 1987, con l’uccisione dei due giovani amanti coinvolti. Fu proprio quel caso a dar via all’abbandono di una consuetudine causa di troppe vittime tra chi si rifiutava di sottomettersi alla “ragion di stato”, ovvero alle leggi della comunità tribale.

Per vivere in un apparente paradiso c’è spesso un prezzo da pagare e a farne le spese sono spesso i più giovani e innocenti. Si tratta dunque di una situazione reale con cui i protagonisti possono identificarsi, aiutati per di più dal fatto di interpretare in alcuni casi loro stessi. Con un canovaccio di sceneggiatura questi "attori", che non avevano mai visto una cinepresa prima dell'arrivo dei due registi, recitano con incredibile naturalezza e questo film è per loro anche occasione di riflettere sulla propria storia, che non significa rinunciare alla propria identità ma riconoscere che la vita è sempre preferibile alla morte, l'amore al sacrificio e la pace alla guerra. Il microcosmo della tribù Yakel diventa dunque anche metafora di una condizione umana che non riesce a fare questo logico passaggio.

Non sappiamo come siano riusciti questi esploratori/antropologi/registi a filmare tutto quello che vediamo sullo schermo con una troupe composta da due sole persone, eppure corrono nella foresta dietro i loro protagonisti, si arrampicano sulle pendici di un vulcano in attività e ne catturano l’improvvisa, fantasmagorica eruzione, ci regalano immagini di struggente bellezza e ci introducono esseri umani che non potrebbero essere più distanti della nostra cosiddetta civiltà ma che subito riconosciamo e ci diventano cari. Soprattutto la piccola Selin e la “sfacciata” Wawa, con la loro naturale bellezza e lo sguardo intelligente e vivo. Un po', soprattutto all'inizio, li invidiamo anche, per la loro comunione assoluta con una natura incontaminata, la loro innocente nudità, la semplicità di una vita che accoglie i doni della natura rispettandola, e identifica il proprio spirito madre nel vulcano che sovrasta l’isola.

Anche se qua e là si sente il tocco degli autori – come nell’esempio di matrimonio combinato felice portato ad esempio alla giovane Wawa, tra la regina Elisabetta e il principe Filippo, o nel commento ironico sui convertiti al cristianesimo che si offrono di accogliere i due amanti nella loro fuga - tutto quel che succede sullo schermo, la vita quotidiana, i drammi, le lotte e le interazioni tra i personaggi, ha l’inconfondibile sapore della verità. Nato da un processo di immersione totale degli autori nella vita e nella cultura del luogo, tanto da imparare il nauvhal (una sorta di pidgin, in un arcipelago che conta più di cento lingue diverse e altrettanti dialetti indigeni!), Tanna restituisce con onestà e poesia allo spettatore la bellezza di un pianeta che stiamo lentamente distruggendo.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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