Take Shelter - la recensione del film scritto e diretto da Jeff Nichols
Esce finalmente nelle sale italiane l'opera seconda del regista americano.
La fatica di vivere. La paura, di vivere.
È di questo che parla Take Shelter, opera seconda di quello che, da tempo, è stato bollato come uno dei più interessanti giovani talenti del cinema americano, Jeff Nichols.
Parla di questo, e lo fa utilizzando metaforicamente e con intelligenza le strutture narrative del cinema di genere (qui l’horror psicologico), fondendole al dramma esistenziale e d’autore e modellandole con mano sicura affinché siano perfettamente funzionali al suo scopo.
Attraverso l’odissea vissuta dal protagonista Curtis - e, di riflesso, della sua famiglia -, attraverso il suo progressivo scivolare nell’insanità mentale, il Nichols sceneggiatore e regista mostra infatti lo stallo di un uomo che, d’improvviso, finisce con l’essere schiacciato e bloccato dai fantasmi del passato, dalle ansie del presente, dalla minacciosa incertezza del futuro.
La madre schizofrenica, le difficoltà economiche e la sordità della figlia, la paura di non riuscire a far fronte agli impegni a venire: sono questi, assieme ad altri, gli elementi che riempiono d’angoscia le notti e le giornate del personaggio interpretato dal bravissimo Michael Shannon, che gli fanno presagire e temere la catastrofe, che gli danno la facile scusa per rintanarsi progressivamente in un rifugio reale e (anch’esso) metaforico che è fuga dalla vita, dai problemi, dalle sfide.
Con un’eleganza formale mai affettata, ma semplice e quasi minimalista, Nichols segue il percorso fisico e mentale di Curtis, alternando con sempre minore soluzione di continuità la realtà e l’incubo, così come percepiti dal protagonista: e alternando quindi il dramma naturalista di stampo indie con atmosfere oniriche, scarnificate e cariche d’angoscia, che ricordano (ma mai scimmiottano) certe sequenze shyamalaniane e persino quale incubo dell’Overlook Hotel.
Così il dramma di Curtis, quello della paura di vivere, si fa progressivamente, empaticamente, quasi fastidiosamente nostro. Come si fa progressivamente, letteralmente, di sua moglie (un’altrettanto brava Jessica Chastain) e di sua figlia.
Un film come Take Shelter, infatti, non era facile da chiudere senza incappare in banalità o cali di efficacia: e va riconosciuto a Nichols di aver trovato nella coerenza narrativa e metaforica la chiave unica per poter mantenere viva l’ambiguità percettiva che caratterizza tutto il suo film. Perché perfino nell’amore, le paure, racconta Take Shelter, si trasmettono e si contagiano.
E per affrontare la catastrofe, nuovamente, l’abbraccio di chi ci vuol bene è l’unico reale e possibile rifugio.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival