Super/Man: The Christopher Reeve Story, la recensione del toccante documentario sull'attore
A 20 anni dalla morte del primo Superman cinematografico, Christopher Reeve, arriva al cinema il commovente documentario Super/Man: The Christopher Reeve Story. La recensione di Daniela Catelli.
In una realtà alternativa, in uno di quei mondi paralleli tanto cari agli appassionati del multiverso, Christopher Reeve oggi sarebbe uno stimato e premiato attore e regista di 72 anni, con molti titoli al suo attivo. Purtroppo, però, non è andata così e il primo Superman cinematografico ci ha lasciato 20 anni fa, il 10 ottobre, dopo una vita incredibile e sfortunata, alle cui sfide ha saputo rispondere – e in questo caso non è retorica – da vero guerriero. Il documentario Super/Man: The Christopher Reeve Story, ci racconta, oltre all’attore, l’uomo, il marito, il padre, il figlio frustrato, l’atleta, l’attivista civile e il simbolo di battaglie che hanno migliorato la vita di molte persone costrette su una sedia a rotelle, attaccate come lui a un respiratore artificiale. L’immagine che tutti hanno di lui, prima dell’incidente, è quella di un ragazzone alto e muscoloso, tipico esempio di bellezza maschile americana: mascella forte, sguardo sincero, sorriso smagliante, in pratica la fotocopia del supereroe con cui è stato identificato e che ha finito per intrappolarlo in un ideale perfezione in cui, uomo come gli altri, non si riconosceva.
Pur consapevole della fortuna avuta nell’essere stato scelto (lui inizialmente gracilino, prima di sottoporsi a faticosi allenamenti per diventare l’alieno salvatore del pianeta) per interpretare Superman, Reeve veniva dal teatro che gli aveva insegnato la disciplina attoriale (eccezionali nel film i ricordi del suo partner di recitazione Jeff Daniels) e voleva diversificare la sua carriera con personaggi più complessi, che qualche regista lungimirante gli ha offerto (James Ivory lo volle in due film, e lavorò anche con John Carpenter), una galleria che avrebbe sicuramente arricchito in età matura, una volta dissipato il mito che aveva incarnato per milioni di ragazzi e che gli Studios volevano ripetere allo sfinimento, con risultati sempre peggiori, dopo i primi due film di Richard Donner e Richard Lester.
Il documentario di Ian Bonhôte e Otto Burnham, realizzato con l’apporto fondamentale dei tre figli di Reeve - Matthew, il primogenito e Alexandra, avuti dalla prima compagna Gae Exton e il minore, Will, dalla moglie Dana Morosini – ci mostra, con testimonianze uniche e la voce stessa del protagonista, l’attore e l’uomo nella sua vita privata, il paradosso di un’esistenza in continuo movimento, da atleta praticamente di ogni tipo di sport, dallo sci al volo aereo all’equitazione, interrotta in un attimo da una banale e drammatica caduta da cavallo durante una gara: l’animale si impunta di fronte a un ostacolo e lui cade sulla testa, con tutta la sua stazza, danneggiando le vertebre del collo. Potrebbe morire, ma i medici fanno il miracolo operandolo e il secondo miracolo lo fanno l’amore e la devozione della moglie Dana, che lo ama e non lo abbandonerà mai. Questo lo convincerà a vivere in condizioni di totale immobilità, a sottoporsi a sacrifici e prove molto più faticose di quelle che ha affrontato in salute, fino a dirigere il suo primo film, con Whoopy Goldberg e Glenn Close, che lo ricordano con amore infinito, dalla sua sedia, tre anni dopo l’incidente.
Ma quello che più colpisce è l’estrema generosità di un uomo che si rende conto che nelle sue condizioni ci sono tantissime altre persone in America e che decide di usare la sua fama per convincere i politici di entrambi gli schieramenti (anche se resta un sincero democratico, sostenitore di John Kerry) a stanziare ingenti finanziamenti per la ricerca, per migliorare la vita e dare una speranza a coloro che non hanno i suoi mezzi (che non bastano nemmeno per lui, tanto che l’amico di sempre Robin Williams, un vero e proprio fratello, lo aiuta assieme alla moglie Marsha). E colpisce il coraggio di Reeve, la sua decisione di presentarsi nelle sue condizioni davanti ai colleghi sul palco degli Oscar, dove entra con una battuta dopo una lunghissima e commossa standing ovation, la volontà di essere sempre in prima fila (lui che già da sano aveva combattuto per i diritti dei più deboli e per l’ambiente), con tutta la fatica fisica che questo gli costava, per aiutare gli altri.
Commuove il fatto che lui, che il padre accademico aveva sempre fatto sentire inadeguato, riesca a costruire dopo l’incidente, grazie alla moglie e alla ex compagna, una famiglia allargata che lo circonda di amore e gli dà la forza per andare avanti. Fino al giorno in cui, purtroppo, il suo cuore si spegne, stanco, all'età di 52 anni. Dana Reeve, che con lui ha fondato e gestito la fondazione che porta il loro nome, lo seguirà dopo nemmeno due anni, stroncata da un tumore che si è tentati di spiegare con i sacrifici che ha fatto per l’uomo della sua vita. Super/Man è la storia di un grande amore, di una persona che ha saputo lasciare una traccia importante nel mondo invece di lasciarsi andare, dell’eredità di impegno portata avanti dei figli, di un supereroe di finzione che è diventato un eroico protagonista del suo tempo. Sono molti gli aspetti di Christopher Reeve che questo bel documentario ci svela, senza retorica ma con sincerità, e molti i momenti in cui affiorano le lacrime. Quando Glenn Close si dice convinta che se lui fosse ancora con noi, ci sarebbe anche Robin Williams, è bello tornare a pensare ad una realtà alternativa, come quella di cui parlavamo all’inizio, in cui li vedremmo ancora accanto, il gigante coscienzioso e l'irriverente folletto. Diversissimi di carattere e fisicamente, ad accomunarli era la grande generosità e il coraggio con cui, nel poco tempo che hanno avuto hanno saputo migliorare il mondo in cui viviamo.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità