Still Life - la recensione del film di Uberto Pasolini

10 dicembre 2013
3.5 di 5
11

Dopo i premi al festival di Venezia arriva nelle sale la sensibile opera seconda di un autore da tenere d'occhio

Still Life - la recensione del film di Uberto Pasolini

Ci sono vite solitarie, ripetitive e scandite da una ritualità quotidiana quasi ossessiva, che però hanno un senso e una normalità per chi le vive. John May è uno di questi uomini grigi che passeggiano al margine della nostra percezione, su cui il nostro sguardo difficilmente si sofferma. In più fa un lavoro molto particolare, cui si dedica con meticolosità, attenzione e cura, e attorno al quale ha impostato la sua vita solitaria: è un funzionario del Comune incaricato di rintracciare eventuali parenti di persone morte in solitudine e sentire se vogliono/possono presenziare al funerale. In loro assenza, è lui a scrivere l'eulogia degli sconosciuti in base alle foto e agli oggetti che trova in casa loro e a scegliere la musica che gli sembra più adatta. Perché lui sa quanto sia importante che ognuno degli uomini e delle donne di cui nessuno si interessa possa avere un addio il più dignitoso possibile, perché nessuna vita è senza valore.

Sono temi profondi, intimi e universali, quelli che Uberto Pasolini, banchiere di successo convertito al cinema trent'anni fa, affronta nel suo secondo film da regista. Anche se la storia si svolge a Londra e il film ha una connotazione tipicamente british, non è difficile immaginarla in una delle nostre grandi città. Appartiene a tutte le metropoli odierne l'isolamento di cui parla Still Life, la solitudine di chi per scelta o per destino non ha nessuno con cui condividere la propria vita, l'allentarsi dei rapporti di buon vicinato che lascia il posto a un'estraneità totale con chi abita alla porta a fianco. Non se la passano meglio i giovani, più a loro agio coi rapporti virtuali che col confronto attivo e problematico col mondo reale.

Pasolini ci racconta tutto questo attraverso la figura di un travet che sembra uscito da un racconto di Kafka o di Gogol, o che potrebbe essere, nella sua fisicità da cartone animato, un abitante congelato dai Biechi Blu nella terra del sergente Pepper, pronto però a riacquistare colore e calore quando, nel suo ultimo incarico di lavoro prima del licenziamento, si apre al mondo partendo alla ricerca delle tracce umane lasciate dal suo dirimpettaio, un alcolizzato che sembra la sua immagine al negativo e che è riuscito però, nella sua vita tragica e incompiuta, a fare la differenza nella vita di altre persone, a dimostrazione  che dietro le esistenze più anonime e disperate possono nascondersi scintille di straordinaria umanità. Tutto questo Pasolini lo dice in un film che parla con voce sommessa, in modo minimalista e rigoroso ma mai angoscioso o noioso, grazie anche al senso dell'umorismo che fa capolino in alcuni irresistibili momenti e ad un attore, Eddie Marsan, assolutamente straordinario per la capacità di immedesimarsi in un personaggio difficile e non scontato e di recitare per sottrazione, dimenticando una carriera in cui spesso gli è stato chiesto proprio l'opposto. Con un battito di ciglia, un sorriso che appare per un attimo, uno sguardo furtivo, comunica in modo toccante la metamorfosi del bruco che si prepara a diventare farfalla.

Still Life non è, sia ben chiaro, un film allegro o conciliatorio, ma a modo suo e attraverso i suoi personaggi esprime un ottimismo di fondo. Di sicuro è in grado di restare con lo spettatore dopo la visione, coerente espressione di un autore curioso e sensibile a cui interessa davvero entrare nella vita di quelli che ci provano ma non ce la fanno e soffrono e falliscono da soli, di cui il nostro cinema spesso e volentieri si dimentica.

 



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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