Smile: la recensione dell'horror di Parker Finn

28 settembre 2022
2.5 di 5

Sosie Bacon, figlia di Kevin Bacon e Kyra Sedgwick, è la protagonista di questa opera prima (basata su un corto precedente del regista) che cerca di trovare una metà via tra l'horror mainstream alla James Wan e quello più "di contenuto". Rimanendo un po' nel mezzo. Al cinema dal 29 settembre.

Smile: la recensione dell'horror di Parker Finn

Capitava e capita ancora, a volte, che con la mia fidanzata ci si dica quanto sarebbe inquietante se, nel cuore della notte, ci svegliassimo per trovare l'altra o l'altro a fissarci con un inquietante sorriso disegnato sulle labbra. Ecco, l'evoluzione di questo discorso da falò casalingo, nato sicuramente dalla voglia di esorcizzare paure e cementare vicinanze, in Smile è stato portato alle sue estreme conseguenze. Smile, che è poi anche il film nel quale, più che altro, alle estreme conseguenze viene portato il concetto generale di sorriso diabolico, qualcosa che nell'horror è sempre stato presente e che ha sempre fatto presa sugli spettatori.

Se avete visto il trailer del film, che comunque trovate in fondo a queste righe, sapete di cosa stiamo parlando. E, se avete visto il trailer del film, avete visto una buona dei suoi momenti più inquietanti, tutti legati al famigerato sorriso del titolo.
Il fatto è che 115 minuti di horror, peraltro nati dall'espansione a lungometraggio di un corto del regista e sceneggiatore Parker Finn, qui sono scarsamente giustificati, e l'impressione che le cose vengano tirate eccessivamente per le lunghe. Anche se è vero che Finn, nel complesso, riesce paradossalmente a tenere la tensione sempre abbastanza alta, anche e forse soprattutto laddove, secondo una delle regole basilari del cinema horror, sai benissimo che qualcosa di spaventoso o di terribile sta per accadere all'improvviso di fronte ai tuoi occhi.

Dentro Smile c'è un sacco dell'horror degli ultimi vent'anni: c'è la questione della maledizione mortale che viene passata al protagonista, che ha pochi giorni a disposizione per salvarsi, e che viene dal J-Horror in stile Ringu, ma anche dall'It Follows che viene implicitamente ed esplicitamente citato da Finn, specie quando si tratta di mettere la protagonista a confronto con qualcosa che solo lei, e nessun altro, vede.
Il film di David Robert Mitchell sembra anche essere stato un riferimento formale, mediato però dalla voglia di andare anche nella direzione del cinema patinato di James Wan, dove a farla da padroni sono gli effettacci e i jumpscare più meccanici, che pure sono presenti in Smile e funzionano bene (soprattutto una volta, inaspettata, ho fatto un bel salto sulla poltrona del cinema).

Rispetto all'horror in stile Wan, però, l'impressione è che Parker Finn abbia cercato uno scarto, mettendo dentro Smile non solo la suspense, gli spaventi e la messa in scena patinata, ma anche qualcosa di più sostanzioso dal punto di vista tematico.
Alla fine della fiera, infatti, Smile è un film che parla di traumi e di come vengono gestiti o non gestiti, e di quel mostro più dentro che fuori di noi (mostro che in Smile, verso la fine del film, assume fattezze simili a quelle dell'ultimo Richard Benson, che riposi in pace) che dei traumi si nutre e che i traumi propaga.
Tutto però è abbastanza superficiale, e le esigenze del tema - depressione, malattia mentale, sindromi post traumatiche da stress - finiscono, letteralmente, per soccombere a quelle dello stile e dell'intrattenimento, dello spavento a buon mercato: il che non è necessariamente un male, se non si fossero denunciate esplicitamente certe ambizioni più elevate.

Rimangono i salti sulla poltrona, un paio di scene ben congegnate, assieme ad altre più grossolane, e a dei dialoghi del tutto da rivedere. Ma al netto dei difetti, di certe ambizioni tematiche e pure formali di troppo, qualcosa di buono Parker Finn l'ha dimostrato, e speriamo che al prossimo giro possa far tesoro di questa sua opera prima riuscita a metà.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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