Shield of Straw - la recensione del film di Takashi Miike
Esiste probabilmente un filo rosso che unisce il precedente Il canone del male e questo Shield of Straw, ennesima regia dell’instancabile Takashi Miike. Un filo rosso che passa per la follia amorale di certi esseri umani.
Esiste probabilmente un filo rosso che unisce il precedente Il canone del male e questo Shield of Straw (Wara No Tate), ennesima regia dell’instancabile Takashi Miike. Un filo rosso che passa per la follia amorale di certi esseri umani, e sulle reazioni possibili, moralmente, eticamente e giuridicamente nell’ambito di una società civile.
Tratto da un romanzo di Kazuhiro Kiuchi, il film è thriller on the road che racconta la storia di un team di poliziotti addetti alla protezione di un killer pedofilo che deve essere condotto a Tokyo per il processo ma che è un vero e proprio bersaglio mobile per via della taglia da un miliardo di yen (equivalenti a oltre 7 milioni e mezzo di euro) messa sulla sua testa dal ricchissimo nonno di una delle vittime.
Costruito abbracciando senza indugi le dinamiche di genere, con abbondanza di scene spettacolari in perfetto stile stile blockbuster hollywoodiano, Shield of Straw è per Miike l’occasione per mettere in scena un sadico e complesso gioco al rialzo che, attraverso le vicende di un integerrimo e tormentato protagonista, spinge alla riflessione su cosa significhi realmente, e quali costi comporti, il rispetto di una legalità che è base della convivenza civile e politica. I crimini commessi dal prigioniero sotto scorta sono quanto di più orribile si possa immaginare, eppure non solo in lui non v’è traccia di rimorso, ma la voglia anzi di provocare chi gli sta di fronte facendo leva sulla loro emotività. E la promessa di cifre così alte, a maggior ragione in tempi di crisi come quelli che viviamo, fa emergere i peggiori istinti anche in chi non è provocato e perfino tra le forze dell’ordine.
Nell’inflessibile senso del dovere dell’agente protagonista, che non cede adumanissimi istinti di vendetta nemmeno di fronte alle provocazioni più atroci e alle morte dei suoi compagni per mano di colui che è stato chiamato a proteggere, Miike sembra tentare di mettere in scena qualcosa di più di un semplice inno al garantismo.
Sono i dettagli del racconto, le microstorie dei vari personaggi che si affacciano sullo schermo, a dare il senso generale di un racconto che mette sotto accusa il disfacimento morale di un paese che, come spesso ripetuto nel film, vede nel concetto di onore un pilastro fondativo.
Perché, di fronte al male nella sua forma più irredimibile, cedere alla sua stessa tentazione è la cosa più facile, mentre il mantenere il controllo è esercizio che travalica l’eroismo.
L’impressione, però, è che degli aspetti etici e morali del suo film, Miike non si interessi più di tanto, e che li racconti con retorica svogliatezza e senza reale voglia di approfondimento. Perché questa volta il regista giapponese sembra assai più interessato a sfruttare il più possibile il budget per lui insolitamente alto messo a sua disposizione dalla produzione, e a realizzare un poliziesco che mette l’azione e la spettacolarità davanti ad ogni altra esigenza narrativa e tematica.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival