Saint Omer: la recensione del dramma processuale opera prima di Alice Diop in concorso a Venezia
Presentato in concorso al Festival di Venezia 2022, Saint Omer è l'opera prima della documentarista Alice Diop, francese di origine senegalese. La recensione di Mauro Donzelli.
Due donne di origine africana in Francia, in un tribunale. È in corso un processo, particolarmente odioso e seguito da opinione pubblica e media. Una, Laurence Coly, è imputata, sempre in piedi, l’altra, Rama, è seduta fra il pubblico e assiste. Una racconta come è arrivata a uccidere la figlia di pochi mesi, l’altra cerca di capirla, per raccontarla in un romanzo reportage, genere creato da Truman Capote con il suo A sangue freddo sulla fine del sogno americano e portato poi a vette notevoli da Carrère. Qui la fine è quella del sogno francese di una donna immigrata molto piccola dal Senegal, cresciuta in una famiglia in cui non le è mai mancato niente, se non il padre, morto prematuramente. Perché fra il pubblico c’è una terza persona: la madre, molto attenta alla forma con cui la figlia si presenta, alla calma, l’educazione e il portamento. Forse meno alla sostanza di quello che ha fatto.
La protagonista, Kayije Kagame, è un’artista performativa che regala autorevolezza e grande fragilità al viaggio fra personale e professionale di una donna che attraverso la disavventura dell’imputata compie un suo intimo percorso di autoanalisi sulla maternità, passiva legata allo status di madre e soprattutto futura, legata a una gravidanza in corso da quattro mesi. Saint Omer, come un paese dell’estremo nord della Francia, terra di emigrazione vicino a Calais, è il luogo in cui si svolge il processo e il titolo del film con cui Alice Diop, anche lei francese di origine senegalese, dopo un’esperienza come documentarista esordisce nel lungometraggio di finzione.
Un film di sguardi fissi e parole, come quelle eleganti di un francese colto che utilizza Laurence, la cui personalità si rivela ossessionata e mitomane, insicura e capace di insinuare continuamente dubbi sui fatti dati per acquisiti appena un attimo prima. Ogni certezza si sgretola, a partire da Rama e dalla sua convinzione di avere lo giusto sguardo per raccontare quanto di inaudito sta raccontando. Saint Omer è allo stesso tempo costruito su un diluvio di parole all’interno dell’aula processuale, in primo piano con camera ferma, e privo di informazioni rivelate al di fuori, momenti in cui lascia che a parlare siano le immagini, i silenzi, le insicurezze e le sofferenze di Rama e della sua vita quotidiana che cambia per sempre. Un viaggio parallelo e spiazzante, che si insinua sotto pelle a chi lo guarda, capace di ragionare sul concetto di verità con profondità di analisi apprezzabile.
La Diop cita e mette in evidenza il riferimento alla Medea, un mito che declina in chiave contemporanea. Se il mare riceve il corpicino di una bambina di quindici mesi proiettandola verso una nuova vita, l’infanticida dimostra una cocciuta impermeabilità a ogni sollecitazione esterna, costantemente ripiegata su sé stessa e il suo disagio paralizzante. Unica manifestazione di debolezza: le mani disperatamente aggrappate alla sbarra di legno consumata dal tempo e da chissà quanto dolore. Indicibile, come il mistero della maternità.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito