RoboCop - la recensione del film
Più che un rifacimento quello di Padhila è un reboot del film originale.
Nell'ormai remoto 1987, Paul Verhoeven, regista olandese che aveva già all'attivo una serie di “oltraggiosi”, violenti e blasfemi lavori in patria, viene chiamato a dirigere il suo primo blockbuster, RoboCop, dopo il debutto in lingua inglese con L'amore e il sangue. A Hollywood si respira un clima di apertura nei confronti dei cineasti non americani e Verhoeven riesce a trasportare il suo stile anche oltreoceano. Il successo del film è enorme e dà il via a due sequel, una miniserie tv, fumetti, cartoni animati e videogiochi.
All'epoca si parla molto di cibernetica, nel 1984 Terminator ha reso popolare il cyborg, macchina dall'aspetto umano, e RoboCop, ambientato in una città violenta come Detroit e in un futuro distopico non tanto dissimile dal presente, ben si presta a fare una satira dei media, delle grandi corporazioni che controllano la polizia e l'opinione pubblica e che affiancano alla facciata pulita e tecnologica un lato oscuro, legato al crimine organizzato. Per tutti questi e per altri motivi, tra cui il ritmo, la carismatica performance di uno sconosciuto attore come Peter Weller - che dopo RoboCop lavorerà con Ferrara, Allen, Wenders e Cronenberg -, i gadget, la fantastica armatura progettata da Rob Bottin, la cattiveria che non fa sconti e il sense of humour dark del regista, il film colpisce l'immaginario collettivo e viene considerato uno dei capolavori del decennio.
27 anni dopo, molto è cambiato, ed è per questo che i nuovi autori decidono saggiamente di non rifarlo pedissequamente ma di realizzarne un cosiddetto reboot. Nella versione diretta da un esordiente nel cinema hollywoodiano come il brasiliano José Padilha, cambia intanto lo stile, che diventa meno realistico e nelle sequenze d'azione richiama da un lato i film di supereroi (Iron Man, anche solo per l'armatura, è ovviamente il più vicino) e dall'altro il ritmo e l'estetica dei videogame. Anche Detroit sembra meno vera di quella del film originale, girato per strada in un paesaggio industriale degradato, con le rapine violente ai drugstore e i magazzini abbandonati rifugio delle gang, protagoniste di una violenza incontrollata.
Nel futuro del film di Padilha - e non è una sorpresa -le grandi corporation sono leader nel settore degli armamenti e della sperimentazione militare, sono i principali fornitori di droni "da difesa" dell'esercito americano e nelle città la corruzione regna indisturbata tra gli stessi tutori dell'ordine. Padilha si sofferma maggiormente sui rapporti del giovane poliziotto, interpretato dall'attore svedese Joel Kinnaman, con la moglie e il figlio, che nel primo film Murphy vedeva solo nei flashback, senza più contattarli. Il tema della riconquista del nome e dell'identità umana contro tutti i tentativi di manipolare e sopprimere scientificamente quell'elemento imponderabile e imprevedibile che è la coscienza, è comune ai due film, mentre spariscono le buffe finte pubblicità che costellavano il primo e il notiziario non è più condotto da una coppia beota stile Barbie e Ken, ma da una specie di Emilio Fede locale - un Samuel Jackson con la parrucca più improbabile delle molte che ha sfoggiato nella sua filmografia – che appoggia senza alcun dubbio la causa della committenza, vale a dire il sogno di una supremazia armata americana pagata col benessere di pochi e il dolore di molti.
Non mancano gli spunti interessanti in un film che forse ne contiene fin troppi, tanto da non riuscire ad armonizzarli come meriterebbero. Tra gli attori ci è piaciuto soprattutto Michael Keaton, perfettamente convincente nel ruolo di un cattivo che non fa che estremizzare senza remore né dubbi la logica di un qualsiasi capitano d'industria ed è il perfetto contraltare della sua vittima. Gary Oldman fa la sua parte con buon mestiere in un ruolo un po' troppo schematico per le sue capacità.
Quello che ci è mancato però - in un film che piacerà sicuramente di più ai ragazzi e a quelli che non hanno visto il primo all'epoca - sono i piccoli tocchi umoristici e umanizzanti come la pistola che il Murphy di Weller roteava prima di riporla nella "fondina" e il fatto che in 2 ore di durata abbiamo contato un'unica battuta, concessa nel prefinale a un personaggio marginale.
Del resto, ogni autore porta nel suo lavoro la propria personalità, e va dato atto a Padhila e ai suoi sceneggiatori di aver tentato per quanto possibile di evitare troppe somiglianze con l'originale. A partire dalle armature che qua sono due, una bianca e una nera, simbolo perfetto del dualismo di un personaggio tradito e sfruttato, in cerca di giustizia, vendetta e conoscenza.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità