Portrait de la jeune fille en feu: recensione del film di Céline Sciamma in concorso al Festival di Cannes 2019
Un mélo teorico e raggelato, un manifesto lesbo femminista non privo di interesse ma troppo bloccato dal suo essere testardamente teorema.
Per una volta, partiamo dalla cosa che interessa più di tutte a molti di voi che leggete, e che interessa pochissimo a me che scrivo: le stelle. Le stelle di Portrait de la jeune fille en feu sono tre, perché in assoluto - e nel particolare del concorso di Cannes dove il film è stato presentato - sarebbe ingiusto scendere sotto alla soglia della sufficienza.
Ma il nuovo film di Céline Sciamma, che pure ha un paio di momenti decisamente riusciti, è anche un film che ha sollevato in me più di una perplessità e di un moto d’irritazione.
È un melodramma, Portrait de la jeune fille en feu. Un melodramma algidissimo, dove il fuoco cui fa riferimento il titolo non è certo un falò o un rogo, ma una fiamma debole e languida come quella dei camini del film, che scalda lentamente e passioni delle sue protagoniste e le lascia a sobbollire senza mai farle debordare davvero da un racconto studiatissimo e fin troppo perfettamente bilanciato nell’uso dei suoi riferimenti letterari espliciti e impliciti: dai miti di greci, alle sorelle Brontë.
Passioni contenute da inquadrature studiatissime e geometriche, che accompagnano tutti i riferimenti al guardare e all’essere guardati, al campo e al controcampo: elementi fondanti del film della Sciamma, che in fondo parla della scoperta di sé stessi che avviene attraverso lo sguardo dell’altro
La ragazza “a fuoco” è Adèle Haenel, tirata fuori dal convento da mamma Valeria Golino e spedita in una grande casa sulla costa della Bretagna, dove una pittrice coetanea (Noémie Merlant) deve ritrarla. Ma di nascosto, perché il ritratto è destinato al futuro sposo milanese della giovane, che non vuole né sposarsi con uno sconosciuto né andare a vivere a Milano. Così, mentre l’una scruta l’altra, e viceversa, e mentre gli altarini cadono, cresce l’attrazione tra le due, tra passeggiate, silenzi, sessioni di ritratto, e una festa campestre notturna che è uno dei momenti forti e riusciti (anche registicamente e non solo dal punto di vista emotivo) del film, da cui è tratta l’immagine chiave per il titolo del film. Una crescita lente e progressiva, che avviene isolata nello spazio e nel tempo in maniera quasi laboratoriale, in un film pieno di fucili che spareranno solo molto tempo dopo, e piazzati ad hoc dalla regista.
Sarà anche raggelato, e declinato in chiave lesbo-femminista (con tanto di sottotrama legata a una servetta incinta che le due protagoniste aiutano ad abortire tra una notte d’amore e l’altra, in un panorama dove gli uomini sono più che virtualmente assenti), ma sempre di melodramma, però, si tratta.
E allora il finale deve essere tragico, sebbene trattenuto. Reso solo un po’ più morbido dall’inevitabile rispecchiamento nella realtà della storia dei ragionamenti fatti dalle due amanti sul mito di Orfeo e Euridice, e dall’uso non propriamente sottile di un richiamo musicale vivaldiano (il terzo movimento dell’Estate), legato all’alba del rapporto tra le protagoniste.
Al netto di un paio di scene più che discutibili (l’aborto praticato mentre un neonato gattona sullo stesso letto; una sessione di autoritratto nudo e disteso, con lo specchio in cui la pittrice si guarda piazzato ad altezza pube della sua innamorata), Portrait de la jeune fille en feu trova però il suo più grande limite nel non riuscire a scrollarsi di dosso tutto l’impianto intellettuale e formale che la Céline Sciamma (magari una brava regista, ma non una grande regista) ha studiato a tavolino. Per dar prova dei suoi studi e delle sue capacità, oltre che delle sue posizioni politiche sui generi.
Così facendo, di quell’impianto rimane prigioniero: perché va bene l’algidità, e passi anche il teorema; ma la frigidità, quella, è un’altra cosa.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival