Red Lights - la recensione del thriller con Robert De Niro
Due ghostbuster analogici, in un film sul conflitto.
Scienza contro fede. Scontro brutale e in corso da secoli che apparentemente sembrerebbe il tema centrale di Red Lights.
In realtà nel racconto di una scienziata (con giovane assistente) che combatte da una vita contro la superstizione del paranormale, si nasconde piuttosto la lotta altrettanto complessa, ma molto più intima, della ricerca della propria identità, della presa di coscienza di quello che realmente siamo e solo in seconda battuta di quale sia il nostro ruolo all’interno della società. Parlando di sensitivi: fra chi è convinto di avere poteri paranormali e chi, piuttosto, finge per interesse personale.
Un film ossessionato da fin troppo smaccate metafore sulla vista: su quanto ci sia “bisogno del buio per sviluppare una fotografia”.
Rodrigo Cortés aveva intrigato molti con Buried, in cui riusciva nel difficile compito di rendere avvincente il tentativo di evasione di un uomo chiuso in una bara con pochi oggetti ad aiutarlo, ma questa volta cerca di vincere facile, affidandosi a brutali variazioni sonore, a scossoni improvvisi, a tutta una serie di artifici, un po’ semplici, per creare una tensione talmente indotta da risultare irritante dopo poco.
Un film grigio ed anonimo come il Midwest degli Stati Uniti, con i suoi grattacieli squadrati e il suo clima inclemente, che cerca di far risaltare le luci rosse del titolo: le variazioni della normalità, le note stonate da individuare in un gruppo di persone per strada o durante l’esibizione di un sensitivo a teatro. Quei piccoli particolari che ad una prima visione sfuggono, ma che per i due protagonisti sono la chiave decisiva per smascherare la falsa fede, il paranormale che nasconde più banalmente il tentativo di truffare un pubblico sempre più distratto, cui basta essere lobotomizzato, non fa poi troppa differenza da chi o da cosa.
Due ghostbuster analogici, in un film sul conflitto: quello fra le frequenze radio di chi suggerisce le finte magie all’imbonitore, quello fra chi usa la scienza facendone una bandiera così estrema da essere un’ossessione esattamente speculare. Red Lights ci lascia sempre in attesa di qualcosa, di un’evoluzione improvvisa, di uno sviluppo necessario di personaggi e storia. Purtroppo non avviene se non quando è ormai tardi, quando ci rendiamo conto che troppo del film è sacrificato per ottenere un coup de theatre, la messa in scena del coniglio estratto dal cilindro.
La figura del sensitivo cieco dal grande carisma dovrebbe incutere timore: agli scienziati Sigourney Weaver e Cillian Murphy e al pubblico, più spesso rischia di essere ridicolo, allungando l’elenco di ruoli fuori asse per Robert De Niro, che sembra ormai interessato solo ad avere un paio di monologhi di routine.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito