Rapito: la recensione del film di Marco Bellocchio in concorso al Festival di Cannes 2023
Un altro grande film firmato da un Marco Bellocchio in stato di grazia, nel quale le ossessioni del regista si sposano perfettamente con la storia che racconta. La recensione di Rapito di Federico Gironi.
All’inizio, questo nuovo film di Marco Bellocchio aveva un altro titolo. Si chiamava La conversione. Solo successivamente, a film praticamente già ultimato, il titolo è diventato l’attuale Rapito.
Quali siano stati i motivi di questo cambiamento non posso saperlo, ma quello che posso fare è dire che, con certezza, dal mio punto di vista, questo titolo meno bello sulla carta è però assai più efficace dell’altro.
Questo non solo perché nel passaggio da La conversione a Rapito c’è già tutta la brutalità della storia - vera - che Bellocchio ha scelto di raccontare, e il tono che ha di conseguenza voluto imporre al film, ma anche perché, in maniera chissà quando consapevole, con questo titolo si crea un legame evidente con quella parte dell’opera bellocchiana che ha trattato, in Buongiorno notte prima, e in Esterno notte poi, del rapimento di Aldo Moro.
Ecco allora che Rapito è l’ennesimo film in cui Bellocchio - ancora in quell’evidente stato di grazia in cui si trova da qualche anno a questa parte - si scaglia, forse non più con rabbia, ma di certo con grande potenza iconoclasta, contro le convenzioni e le ipocrisie del nostro paese e della nostra storia, e contro ogni forma di chiesa e di dogmatismo: qui non più l’aberrazione del terrorismo, mutazione perversa dell’ideologia comunista, ma la Chiesa con la “c” maiuscola, quella cattolica. Ma più in generale contro ogni integralismo religioso.E soprattutto contro ogni forma abusiva e coercitiva che il potere, qualsiasi esso sia, mette in pratica.
La vicenda è oramai nota. Edgardo Mortara, bambino bolognese di famiglia ebrea, viene sottratto ai suoi genitori e ai suoi fratelli dal tribunale eccelesiastico, quando si scopre che una cameriera lo aveva battezzato di nascosto, nel timore morisse e finisse nel limbo.Un vero e proprio rapimento, avvenuto nel 1858, immediatamente prima quindi delle guerre di indipendenza che segnarono la nascita della nazione italiana e di quella breccia di Porta Pia che mise fine al potere temporale della chiesa.
Una congiuntura storica che Bellocchio non manca ovviamente di cogliere, sintetizzando anche in (e attraverso) queste vicende, la complessità del ragionamento sull'Italia e la sua storia che porta avanti in questo film.
Fotografato con luci gravi e quasi plumbee da Francesco Di Giacomo (che con Bellocchio aveva già lavorato proprio in Esterno notte), Rapito inizia, e per molti versi procede, quasi come un film horror, un horror psicologico, gotico, padano-romano. La scena in cui il piccolo Edgardo viene condotto lontano da Bologna, su una barca che discende il Reno, accompagnato da due donne che sembrano, per abiti e atteggiamento, due streghe uscite da una favola dei Grimm, ne uno dei primi e più evidenti segnale.
L’orrore di Rapito sta certamente nella spietata determinazione della Chiesa (di Papa Pio IX in particolare, interpretato da uno straordinario Paolo Pierobon, quasi un Imperatore Palpatine, se mi si passa il paragone spericolato, con il padre Pier Feletti di Gifuni a fargli da Darth Vader) nel fare del caso Mortara un caso esemplare, di non cedere di fronte a nessuna pressione, nella consapevolezza, anche magari solo inconscia, ma fortissima, dell’imminenza della fine di un’era e di un potere, e nell’attuare un vero e proprio lavaggio del cervello nel piccolo Edgardo e di tanti altri bambini.
L’orrore di Rapito sta nello strazio indicibile di due genitori (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi) che vedono un figlio strappato via, condotto lontano e forzato ad abbracciare una fede che non è la loro. E qui Bellocchio, che pure racconta in tutta la sua lacerante forza il dolore di questi genitori, sembra suggerire che anche l’ossessione del personaggio di Ronchi per la preservazione della propria fede, oltre per quella del figlio, una preservazione diventa ostacolo alla possibilità di riabbracciare Edgardo prima e di ritrovarlo poi, sia un dogmatismo assurdo e, in qualche modo, disumano, ma al tempo stesso anche una questione identitaria, e non religiosa, che è da rispettare.
Nello stesso Edgardo, nelle sue rare ma sintomatiche espressioni schizofreniche, è contenuto un orrore cui Bellocchio non è affatto indifferente, anche se la sua posizione è forse incarnata dallo sconcerto del fratello di Edgardo che ha abbandonato ogni fede e ogni credo, se non quello rivoluzionario e unitario, laico e funzionale al ritrovamento del fratello.
Politica e religione, che da sempre sono state le ossessioni tematiche di Marco Bellocchio, in Rapito trovano una nuova sintesi, sottoposte a una nuova e spietata analisi, portata avanti con una lingua cinematografica in stato di grazia: dal copione (scritto con Susanna Nicchiarelli, e la collaborazione di Edoardo Albinati e Daniela Ceselli) che è in grado di alternare uno sguardo affilato e consapevole sulle grandi questioni e un’attenzione commovente ai dettagli della vita quotidiana dei personaggi, a una forma potente e trascinante, passando per una capacità di gestire gli attori e far dare a ognuno il meglio che ha dell’incredibile.
Il risultato è una pagina di cinema, di storia, e di disamina delle dinamiche e delle perversioni del potere e dell'idologia che lascia un segno chiaro, profondo, durevole.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival