Rabbia furiosa - Er Canaro: recensione del film scritto e diretto da Sergio Stivaletti
Un film più che imperfetto, ma a suo modo coraggioso, e sincero.
Inutile stare qui a fare paragoni inutili e magari pure un po’ ingiusti. Inutile stare a vedere chi sia arrivato prima, se quella di Sergio Stivaletti è un’operazione così, nata solo per andare al traino di Garrone, o meno.
Perché Rabbia furiosa - Er Canaro e Dogman sono due film incomparabili, pur raccontando sostanzialmente la stessa storia: lo sono perché rappresentano due idee di cinema (due storie, di cinema) totalmente diverse, e perché diverso è il posto dove vogliono andare a parare.
Va detto però che, se già la circostanza era di rilievo nel caso del film presentato in concorso a Cannes, è qui forse ancora più interessante notare che perfino il mago degli effetti speciali di casa nostra - l’uomo che ha concretizzato fisicamente gli incubi dei Dario Argento, dei Lamberto Bava e dei Michele Soavi - ha ritenuto opportuno circoscrivere nella manciata di minuti che precedono la fine del film le efferatezze della cronaca nera, che pure arrivano nel modo che ti aspetti.
Trasportata la vicenda dalla Magliana al Quadraro, e dagli anni Ottanta ai giorni nostri, Rabbia furiosa non ha l’ambizione da fiaba nera di Dogman, ma cerca invece - anche apprezzabilmente - il ritratto sincero della borgata romana (di quella borgata sospesa, nel film, tra idealizzazione post-pasoliniana e neo-verismo venato di fantastico allucinato) e delle sue dinamiche.
Il suo Canaro non è vittima, o comunque non solo. Non è un’anima pura in cerca di amore, ma uno che sa benissimo chi è e dove vive, ma che sogna un futuro diverso per sé e per la sua famiglia, e che rimane schiacciato dalle circostanze, e dalla sua nemesi.
Che qui non è il ritratto di un male purissimo e quasi metafisico, come quello di Edoardo Pesce, ma un piccolo boss un po’ instabile e un po’ infantile, che ondeggia bipolare tra un legame perverso ma sincero d’amicizia col Canaro, al gusto sadico e stupefatto (nel senso di dopato) della sopraffazione fisica e psicologia.
Il rapporto, a essere sinceri, non funziona granché: né nella dipendenza, né nella logica sado-masochistica di una vittima e di un carnefice. E le strambate improvvise nei comportamenti, finiscono con l’essere vagamente arbitrarie.
Fabio e Enzo, così si chiamano i due protagonisti, si muovono così prevedibili ed erratici nel contesto di un quartiere e di una realtà raccontato con eccessi d’ingenuità da un lato, e da un’eccessiva caratterizzazione scult dall’altro.
Ma a Stivaletti va riconosciuto del coraggio, che non è solo quello di aver voluto fare un film “vero” sulla storia del Canaro, e non un banale thriller sanguinolento, tutto costruito sulle fondamenta dei suoi effetti.
Il suo è film che, in tutta la sua parte pre-sevizie, cerca di catturare non solo il ritratto della borgata, ma anche il tono e lo spirito di una tradizione cinematografica oramai scomparsa: quella del genere (che fosse - o sia - western, giallo, o horror fantastico, poco importa) portato avanti in maniera artigianale, ma sincera.
Certo, va anche considerato l’altro lato della medaglia. E cioè il fatto che il suo tentativo di fare il regista a tutto tondo - al netto delle buone intenzioni, della voglia dichiarata di fare un film “casalingo”, e di qualche azzeccata intuizione tutta figlia del mestiere - forse è stato un voler fare il passo più lungo della gamba.
E però, alla fine, con tutti i suoi tanti difetti, Rabbia furiosa non è un film che irrita, o che indigna, o che spinge allo sberleffo. Perché la sua matrice casalinga, ruspante, magari un po’ arrangiata, gli regala una natura che tutto è tranne che arrogante, tracotante o narcisista.
E allora meglio Er Canaro di Sergio Stivaletti, alla fine, di tanto altro cinema minore che, invece, se la canta, se la suona e se la tira. Fin troppo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival