Perfect Days: la recensione del film di Wim Wenders in concorso al Festival di Cannes 2023
Wenders, in trasferta a Tokyo, guarda dritto al cinema di Ozu e centra il bersaglio. Con protagonista un grande Koji Yakusho, racconta una storia silenziosa, routinaria, tutta concentrata sul momento, e nel cogliere le piccole, enormi bellezze di una vita difficile. Arriverà da noi con Lucky Red. La recensione di Perfect Days di Federico Gironi.
Hirayama è un uomo non più giovanissimo, e silenziosissimo. Lo sentiremo pronunciare pochissime parole nel corso del film che lo racconta. È solo, e sembra esserlo per scelta. Forse.
Hirayama è anche metodico, e routinario. Molto routinario. Ogni mattina si sveglia, compie il suo rituale (mettere via il tatami su cui dorme, lavarsi i denti, curare i baffi el e piante), esce di casa, prende una lattina di caffè da un distributore automatico e sale in auto, dove ascolta vecchie musicassette dei grandi del rock (da Lou Reed a Nina Simone, passando per Van Morrison e Patti Smith) per andare a fare il suo lavoro.
Hirayama per lavoro pulisce le toilette pubbliche di Tokyo, e lo fa con uno zelo che la maggior parte di noi non riserva nemmeno ai bagni di casa propria. Nell’intervallo di pranzo mangia in un parco, ammirando gli alberi, le loro cime che si sfiorano e che ondeggiano al vento, ogni tanto le fotografa con una compatta analogica. Finito di lavorare, compie, ancora una volta, sempre gli stessi gesti, e si addormenta in attesa del mattino successivo, dopo aver letto qualche pagina di un libro (Faulkner, Patricia Highsmith, la scrittrice giapponese Aya Kōda).
Dopo aver stabilito questa routine, Perfect Days però inizia, in maniera discreta e progressiva, a mostrare una serie di piccole increspature, deviazioni impreviste e obbligate al percorso abituale di Hirayama. Il quale però, a modo suo, sembra accettare, se non di buon grado, con una certa filosofia questi piccoli imprevisti.
E anzi sembra saper trovare, in questi imprevisti, quegli spiragli di luce, di bellezza quasi, che rendono la vita degna di essere vissuta: un bacio sulla guancia inatteso, il saluto di un bambino, un foglietto con la prima mossa di una partita di tris da condurre a distanza, giorno dopo giorno, contro chissà chi.
Perfino l’arrivo, alla sua porta, di una nipote, attraverso la quale intuiamo quel che già sospettavamo, e cioè che c’è qualcosa di irrisolto nel passato di Hirayama, e che quel lavoro così umile, e così al servizio del prossimo, lo svolge anche se la sua famiglia è probabilmente ricca. Molto, ricca.
Wim Wenders però sta ben attento a non rivelare nulla del suo protagonista (interpretato da Koji Yakusho: sublime), a non dargli un passato chiaro e definito. Chiaro e definito, tutto sommato, tra silenzi e non detti, lo è perfino il suo presente.
Quello che per Wenders è importante, è definire la psicologia e il comportamento di un uomo per qualche motivo scollato dal tempo, dal suo tempo (non ha uno smartphone, non sa cosa sia Spotify, il digitale non fa parte della sua vita in alcun modo, anche se il digitale è ciò che lo riprende e ce lo racconta), eppure proprio per questo presentissimo. Concentrato nel momento. Il momento che gli permette di cogliere e apprezzare e dare valore a quel che ha, vede, incontra.
Hirayama era il nome della famiglia che Yasujirō Ozu raccontava nel suo ultimo film, Il gusto del sakè, e di certo non è un caso. In trasferta in Giappone, con una sceneggiatura scritta assieme a Takuma Takasaki, Wim Wenders sembra voler riprendere i toni e i sentimenti del cinema del grande maestro giapponese, riuscendo nell’ardua impresa di avvicinarsi molto a quel modello.
Hirayama fotografa le cime degli alberi, e a casa le sue piante sono proprio piccoli alberelli nascenti che ha messo in vaso e che cura dopo averli trovati nei giardini durante le sue pause pranzo. Wenders mette alla fine del suo film la parola giapponese “komorebi”, che vuol dire “la luce che filtra attraverso le fronde degli alberi”. Come a voler sottolineare la bellezza di quel che filtra fino a noi, illuminandoci, attraverso il fitto intrico delle cose della vita, che rischiano di farla buia.
Wenders avrebbe anche potuto, forse, far riferimento a quel fenomeno noto come “timidezza della corona”, ovvero quello per cui alcuni alberi riescono a far sì che le loro chiome si avvicinano ma non toccano mai quelle degli altri, evitando così il passaggio di parassiti e malattie da un albero a all’altro, e formando quei pattern bellissimi e affascinanti che anche Hirayama immortala a volte con la sua macchinetta in bianco e nero.
Perché anche lui, Hirayama, sta bene attento, in fin dei conti, a non invadere mai lo spazio altrui: per proteggere, per proteggersi. E quando, con garbo, in qualche modo lo fa, è solo per verificare che ombra più ombra non produce più oscurità, e che i nostri dolori sono tutti uguali, non si sommano, e le insensatezze della vita sono tali per tutti.
E allora non resta altro da fare che procedere, in silenzio, giorno dopo giorno, perfect day dopo perfect day. Perché la perfezione non esiste. Perché, come canta Nina Simone: “It's a new dawn / it's a new day / It's a new life / For me / And I'm feeling good”. Anche quando non è affatto vero.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival