Pasolini - la recensione del film di Abel Ferrara con Willem Dafoe

04 settembre 2014
2.5 di 5
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Non un biopic, ma un ritratto incastonato nel passato che guarda interrogativo al futuro.

Pasolini - la recensione del film di Abel Ferrara con Willem Dafoe

Non c'è stato forse altro intellettuale, nel Novecento italiano, capace di essere altrettanto dirompente e influente di Pier Paolo Pasolini. Romanziere, giornalista, poeta, regista e molto altro - nel film di Abel Ferrara si dichiara, semplicemente (?) "scrittore" - Pasolini è stato tanto capace di leggere il suo tempo quando di essere preveggente rispetto a quel che sarebbe venuto dopo la sua barbara uccisione: ed è per questo motivo (e forse per il vuoto mai colmato dalla sua assenza) che, ancora oggi, lui e il suo pensiero sono tanto spesso scomodati, e spesso immotivatamente e a sproposito. Per questo motivo, non abbiamo ancora superato Pasolini laddove sarebbe stato forse necessario farlo.

Cosa c'entra questo con il film di Ferrara? Tutto.
Perché Pasolini - oggetto misterioso e diseguale, ambiguo e difficilmente afferrabile - non è un film che pare avere uno scopo. Se non quello, a tratti inconsapevole, di mettere di fronte lo spettatore all'icona Pasolini da un lato (un'icona piuttosto monodimensionale e mai approfondita, a tratti vagamente caricaturale) e alla domanda scomoda "cosa sarebbe stato di Pasolini se non fosse morto" dall'altra.
Scomoda perché, necessariamente, porta con sé quella relativa a cosa penserebbe Pasolini di noi, della società di oggi, e soprattutto di chi lo cita e lo scomoda a ogni piè sospinto.

Meno anarchico, selvaggio e sregolato di quel che si potrebbe aspettare da un regista come Ferrara, Pasolini è un film incerto e spesso disascalico, nel quale però non si racconta tanto il passato dell'uomo e dell'intellettuale quanto il futuro che non ha mai avuto. Alla quotidianità di PPP negli ultimi giorni della sua vita s'intrecciano visioni basate sui suoi lavori mai terminati, il romanzo "Petrolio" e il film Porno-Teo-Kolossal, che avrebbe dovuto vedere protagonisti Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli.
Di quest'ultimo, Ferrara inventa di sana pianta alcune scene, lasciando al vero Ninetto il compito d'interpretare il personaggio di Eduardo, e a Riccardo Scamarcio il ruolo di Ninetto, facendoli muovere in una Roma contemporanea e creando così un cortocircuito temporale che riassume forse il senso dell'intero film.

Lo testimonia anche l'altro frammento della vita vera di Pasolini che nel film è importante, oltre al momento della sua morte: l'intervista incompleta che PPP rilasciò a Furio Colombo e che Ferrara mette in scena evidenziando le impressionanti analogie delle dichiarazioni pasoliniane di allora con "la situazione" di oggi.
Lo testimonia anche una ricostruzione d'epoca un po' ossessiva, e la galleria di figurine che un po' scolasticamente si alternano sullo schermo (lo stesso personaggio di Scamarcio-Davoli, ma anche la Betti di Maria de Medeiros e altre ancora).

A Ferrara il passato non interessa. Il passato è un fossile, è un libro di storia; e, anche se sfuggono qui e lì un paio di accenni che potrebbero insospettire, non è per lui minimamente interessante fare dietrologie sulla morte del suo protagonista.
Quello che interessa a Ferrara è la tensione impossibile di Pasolini e della sua opera verso il futuro: di quel futuro che è l'oggi, e che forse è l'inferno nel quale Pasolini si era già calato. Un oggi nel quale, come disse PPP a Colombo, "siamo tutti in pericolo". O nel quale magari, suggerisce con amarezza Ferrara, all'inferno siamo già tutti: quell'inferno che sta nell'attesa infinita, nel non sapere dove andare, nell'attesa di un qualsiasi Godot (o di un Pasolini) che ci scuota dalla nostra mortale e mortifera immobilità.





  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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