Pasolini - la recensione del film di Abel Ferrara con Willem Dafoe
Non un biopic, ma un ritratto incastonato nel passato che guarda interrogativo al futuro.
Non c'è stato forse altro intellettuale, nel Novecento italiano, capace di essere altrettanto dirompente e influente di Pier Paolo Pasolini. Romanziere, giornalista, poeta, regista e molto altro - nel film di Abel Ferrara si dichiara, semplicemente (?) "scrittore" - Pasolini è stato tanto capace di leggere il suo tempo quando di essere preveggente rispetto a quel che sarebbe venuto dopo la sua barbara uccisione: ed è per questo motivo (e forse per il vuoto mai colmato dalla sua assenza) che, ancora oggi, lui e il suo pensiero sono tanto spesso scomodati, e spesso immotivatamente e a sproposito. Per questo motivo, non abbiamo ancora superato Pasolini laddove sarebbe stato forse necessario farlo.
Cosa c'entra questo con il film di Ferrara? Tutto.
Perché Pasolini - oggetto misterioso e diseguale, ambiguo e difficilmente afferrabile - non è un film che pare avere uno scopo. Se non quello, a tratti inconsapevole, di mettere di fronte lo spettatore all'icona Pasolini da un lato (un'icona piuttosto monodimensionale e mai approfondita, a tratti vagamente caricaturale) e alla domanda scomoda "cosa sarebbe stato di Pasolini se non fosse morto" dall'altra.
Scomoda perché, necessariamente, porta con sé quella relativa a cosa penserebbe Pasolini di noi, della società di oggi, e soprattutto di chi lo cita e lo scomoda a ogni piè sospinto.
Meno anarchico, selvaggio e sregolato di quel che si potrebbe aspettare da un regista come Ferrara, Pasolini è un film incerto e spesso disascalico, nel quale però non si racconta tanto il passato dell'uomo e dell'intellettuale quanto il futuro che non ha mai avuto. Alla quotidianità di PPP negli ultimi giorni della sua vita s'intrecciano visioni basate sui suoi lavori mai terminati, il romanzo "Petrolio" e il film Porno-Teo-Kolossal, che avrebbe dovuto vedere protagonisti Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli.
Di quest'ultimo, Ferrara inventa di sana pianta alcune scene, lasciando al vero Ninetto il compito d'interpretare il personaggio di Eduardo, e a Riccardo Scamarcio il ruolo di Ninetto, facendoli muovere in una Roma contemporanea e creando così un cortocircuito temporale che riassume forse il senso dell'intero film.
Lo testimonia anche l'altro frammento della vita vera di Pasolini che nel film è importante, oltre al momento della sua morte: l'intervista incompleta che PPP rilasciò a Furio Colombo e che Ferrara mette in scena evidenziando le impressionanti analogie delle dichiarazioni pasoliniane di allora con "la situazione" di oggi.
Lo testimonia anche una ricostruzione d'epoca un po' ossessiva, e la galleria di figurine che un po' scolasticamente si alternano sullo schermo (lo stesso personaggio di Scamarcio-Davoli, ma anche la Betti di Maria de Medeiros e altre ancora).
A Ferrara il passato non interessa. Il passato è un fossile, è un libro di storia; e, anche se sfuggono qui e lì un paio di accenni che potrebbero insospettire, non è per lui minimamente interessante fare dietrologie sulla morte del suo protagonista.
Quello che interessa a Ferrara è la tensione impossibile di Pasolini e della sua opera verso il futuro: di quel futuro che è l'oggi, e che forse è l'inferno nel quale Pasolini si era già calato. Un oggi nel quale, come disse PPP a Colombo, "siamo tutti in pericolo". O nel quale magari, suggerisce con amarezza Ferrara, all'inferno siamo già tutti: quell'inferno che sta nell'attesa infinita, nel non sapere dove andare, nell'attesa di un qualsiasi Godot (o di un Pasolini) che ci scuota dalla nostra mortale e mortifera immobilità.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival