Parigi, tutto in una notte: la Francia spaccata (e riunita) di Catherine Corsini in concorso al Festival di Cannes
La borghesia e i gilet gialli, le ingiustizie sociali ed economiche, la sanità pubblica: La Fracture racconta di una spaccatura che non riguarda solo la Francia, e che non sanabile dalla sola buona volontà del cinema. Con Valeria Bruni Tedeschi. La recensione di Federico Gironi.
I primi minuti di Parigi, tutto in una notte (La Fracture) fanno pensare possa trattarsi della solita commedia francese dove Valeria Bruni Tedeschi fa la simpatica nevrotica. Si sta infatti separando da Marina Foïs dopo dieci anni di relazione, non la sta prendendo benissimo e fa i numeri che potete facilmente immaginare.
Poi però Catherine Corsini, sempre con toni piuttosto lievi, ci presenta anche un camionista (Pio Marmaï) che sta andando a manifestare contro il governo sugli Champs-Élysées coi gilet gialli. E lui cosa c'entra?
C'entra. Perché in seguito a due incidenti (banale quello della borghesissima Bruni Tedeschi, avvenuto per via dell'intervento della polizia in quello di Marmaï) i due personaggi (e poi anche quello della Foïs) si ritrovano entrambi in un pronto soccorso.
Preso d'assalto, come spesso avviene, e con un personale ridotto all'osso e alle prese con turni sfiancanti, eppure sempre pronto a farsi in quattro, come fa ad esempio l'infermiera Kim (Aissatou Diallo Sagna).
Ed ecco che La Fracture si rivela qualcosa di assai diverso da quel che aveva lasciato intendere all'inizio, e che per temi, e pure per stile, è uno di quei film politicamente e socialmente impegnati che tanto bene vengono ai francesi (il Brizé di La legge del mercato e di In guerra è un chiaro e ovvio riferimento).
La frattura del titolo non è solo quella del gomito di Valeria Bruni Tedeschi che la fa arrivare in ospedale: è quella di una Francia lacerata da un conflitto sociale sintetizzato nei due personaggi protagonisti, con la borghesia intellettuale e di sinistra da un lato e la rivolta popolare, populista e proletaria dall'altro. Una frattura che quelle lunghe ore di permanenza al pronto soccorso - un pronto soccorso dal quale la regista non ci farà uscire fino alla fine del film, accavallando storie minime e tragedie grandi - sembra voler essere il gesso capace di sanare. Perché la salute è una livella, e perché l'incontro forzato aiuta a superare i rispettivi pregiudizi.
Non so se sia giusto dire che Catherine Corsini è dalla parte dei gilet gialli, ma sicuramente ne racconta (bene) le ragioni e l'umanità, e altrettanto sicuramente condanna la violenza repressiva ed eccessiva delle forze dell'ordine, che nel suo film arrivano perfino a sparare fumogeni alle soglie della porta dell'ospedale.
Sicuramente Corsini è dalla parte dei lavoratori, di chi è disperato per le ingiustizie sociali ed economiche e allora protesta, e ancora di più di chi, pur frustrato e sfruttato, e pur tra mille difficoltà, non smette abdica mai all'umanità e al suo dovere. La pandemia ha aperto gli occhi di molti (ma non abbastanza) sul lavoro di medici e infermieri, e sullo stato della sanità pubblica: e se si corresse il rischio di dimenticarlo, questo film che alla pandemia non accenna nemmeno ce lo ricorda. Per fortuna.
Certo, è in film a tesi, Parigi, tutto in una notte, e come tutti i film a tesi ha i limiti imposti dalla stessa, e qualche rigidità di troppo. E però è un film capace di grande umanità, e di smuovere i sentimenti in maniera mai ricattatoria, ma con la forza di una serie di verità oggettive e purtroppo quotidiane.
E nel finale, amaro, amarissimo, Catherine Corsini sembra indicare che la frattura sociale che corre lungo la Francia e tutto l'Occidente ha bisogno di ben altro che del cinema per poter essere sanata.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival