Paradies: Liebe - la recensione del film di Ulrich Seidl

18 maggio 2012
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Della corrente contemporanea del cinema afasico e anaffettivo che affligge festival e sale cinematografiche, l’austriaco Ulrich Siedl è probabilmente il capofila indisturbato.




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Della corrente contemporanea del cinema afasico e anaffettivo che affligge festival e sale cinematografiche, l’austriaco Ulrich Seidl è probabilmente il capofila indisturbato.
Discepolo apocrifo ed eretico del connazionale Michael Haneke e ispiratore di colleghi come il greco Yorgos Lanthimos, fin dai tempi di Canicola Seidl regala agli spettatori spettacoli dove lo squallore e il brutto, la deviazione e la malattia - in generale, tutto il rimosso - sono elevati ad estetica algida e geometrica.

Paradies: Liebe, che s’intende come prima parte di una trilogia sulle tre virtù teologali, non fa eccezione a questa ideologia cinematografica che s’ammanta d’intellettualismo per lavorare in maniera moralmente (almeno) ambigua sui soggetti che racconta.
In questo caso, dopo un incipit sfacciato e arbitrario che mostra un gruppo di ragazzi down sull’autoscontro, si tratta di una donna di mezza età (dimessa, sovrappeso e cadente) che si reca in vacanza in Kenya. Lì, spinta dalle amiche, si presterà al turismo sessuale: dapprima credendo davvero di aver fatto infatuare un aitante giovanotto, poi in maniera via via più cinica e disperata.

Attraverso la consueta costruzione formalmente piatta e asettica, oggettivante nelle intenzioni del suo autore,
Paradies: Liebe si esibisce per due ore in estenuanti reiterazioni, offrendo impietosamente e compiaciutamente allo sguardo dello spettatore il decadimento fisico e morale della sua protagonista, lo squallore di coloro i quali offrono integralmente i loro corpi alle donne vecchie e annoiate (e alla macchina da presa) in cambio di denaro e di coloro che li sfruttano.
Sul tema si erano già espressi altri autori, in passato, ad esempio il Laurent Cantet di Verso Sud. Ma nessuno aveva mai toccato gli abissi di indecenza di Seild, il quale con la scusa della documentazione o della denuncia, indugia con sadismo su uno squallore spettacolarizzato con inarrivabile cinismo.
Perché Seild non ha alcuni degli alibi a disposizione dei suoi personaggi, non ha alcuna urgenza di disperazione o alcun circuito chiuso di sfruttamento alle spalle (semmai ne entra a far parte) per rimestare nel torbido con tanto disinteresse.

Disinteresse, e nemmeno disprezzo: perché per Seild, le persone e i fatti che raccontano non son degni nemmeno di un investimento emotivo eccessivo.
Sono animali in uno zoo, cavie da esperimento, scimmie ammaestrate da far depravatamente esibire con sprezzante indugio nel disturbante, e infine abbandonare al loro destino al termine dei titoli di coda.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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