Padroni di casa - la recensione del film di Edoardo Gabbriellini
Un film con un inedito Gianni Morandi che racconta, tra il noir e il brillante, la facile violenza
I padroni di casa hanno la faccia da lupi, sono diffidenti e arroganti senza volerlo, ironici e pronti ad uno sfogo improvviso. Vivono a contatto con la natura, avendo urgenza di mostrarla. Voleva fare questo film dal 2006 Edoardo Gabbriellini, un attore spontaneo, un regista introverso ma che si lascia andare, qui alla seconda prova.
E forse un regista "giovane" la cosa che più teme sono le etichette, le gabbie tematiche, gli stereotipi e le ripetizioni. In questo caso tutte intelligentemente evitate. La cosa che vorrebbe di più invece è sorprendere rimanendo in contatto con la realtà. Raccontando a suo modo la violenza.
La vicenda di Padroni di casa prende forma in una provincia sull'Appennino tosco-emiliano, ma si capisce che non è la vita di provincia il suo scopo. E nemmeno il conflitto, piuttosto l'indifferenza emotiva generalizzata. Comunque presente, ma resa palpabile dall'arrivo delle facce nuove di Cosimo e Elia (Valerio Mastandrea e Elio Germano), piastrellisti romani che lavorano per qualche giorno a casa del cantante Fausto Mieli (Gianni Morandi). Fausto vive del meccanico affetto per la moglie malata e di una contenuta trepidazione per il grande concerto del rientro, mentre il paese, raccolto tra fitti alberi ad alto fusto, è placido e insofferente a tutto.
Gabbriellini mostra i fratelli Cosimo e Elia, tracciandone in modo familiare la leggerezza, i litigi e le debolezze, ma è la natura, profonda e avvolgente ad attrarre il suo sguardo per smontare le apparenze. Dilatata da una bassa e costante tensione, questa storia è verosimile come una cronaca, brillante e tragica nei toni. Intenzionata non a ragionare ma a lasciarsi andare a un sentimento di violenza, che i paesani infastiditi dalla presenza dei due stranieri vogliono sfogare. Attraverso incontri verbali piuttosto sommari e veritieri, conversazioni prima da ridere e poi intimidatorie (tra gli sceneggiatori c'è Mastandrea), Gabbriellini dipinge in modo personale una realtà piccola ma comune, dove il cantante famoso si è ritirato suo malgrado e i paesani sono afflitti da paura dello sconosciuto e facili alle armi. In una situazione non melodrammatica ma intorpidita dall'insofferenza e dai ruoli di facciata.
L'umore del regista livornese e del film si fa forte di personaggi trainanti come Mastandrea e Germano, insoliti, come un Morandi ambiguo e indelicato, e di un pericolo per gran parte solo ipotizzato. Dove cede invece è in una brusca risoluzione della vicenda, interessante ma scomposta. E' l'irruenza che sotterra tutti i segnali e le sfumature che avrebbero meritato maggiore profondità. "Devo aver sviluppato una sensibilità paranoica" ha detto il regista sulla ragione di questo film, di certo è una sensibilità matura e curiosa.