Okja: la recensione del film targato Netflix in concorso al Festival di Cannes 2017
Delude il regista Bong Joon-ho, delude il suo cast e il film è davvero poca cosa.
Super-maiali (che più che maiali sembrano ippopotami over-size) spacciati come miracoli della natura, ma nati da esperimenti genetici. Una corporation senza scrupoli, che tenta di vestire la sua anima nera con abiti eco-friendly, nel segno del marketing, dei social e della società dell'immagine. Una ragazzina che si vede sottrarre l'animale che è stato il suo unico amico per dieci anni, e che ha di fronte un destino a dir poco incerto nel migliore dei casi.
Da qui parte Bong Joon-ho, che non ha mai esitato di fronte a premesse fantastiche e originali, nel suo cinema; ma che in questo caso, con Okja, non sa bene dove debba andare.
O forse lo sa anche: ma mai prima d'ora la sua capacità di ibridare i generi e i toni, di percorrere corde tese nel vuoto senza mai perdere l'equilibrio, era venuta a mancare, facendo di un suo film il pasticcio che è Okja.
Per usare una metafora che farebbe infuriare gli animalisti del film (ma anche quelli veri), qui Bong mette troppa carne al fuoco, sbaglia dosi e tempi di cottura.
Se dal punto di vista della fiaba, nella sua superficie immediata, delle opere di Miyazaki o di Spielberg Okja è solo un pallido riflesso, colpisce l'ingenuità con cui il regista coreano tratta la questione sottostante: quella animalista e ambientalista, comunque anti-capitalista, trattata coi toni troppo sopra le righe di una satira esagerata e con l'utilizzo di metafore e simbolismi troppo ovvi.
A partire da Mija, la protagonista del film, straniera in terra straniera, quella che parla una lingua diversa, e col suo agire è in grado di scardinare i meccanismi del Capitale ma anche di quelli che, con idealismo un po' cretino, a esso si vogliono opporre.
E poi, davvero Mija è in grado di rappresentare una rottura? O è forse vero che, alla fine, Okja racconta che il Capitale non si può davvero battere, che si possono solo limitare i danni, e che per farlo bisogna comunque usare le sue stesse armi, scendere a patti con esso?
Ma questo aspetto, che potrebbe rappresentare un bel motivo d'interesse, Bong sembra quasi gettarlo via, utilizzarlo come facile espediente narrativo per concludere il suo racconto e per permettere il romantico ritorno a casa e alla Natura della sua protagonista.
Una protagonista che ha combattuto (e vinto, non poteva essere altrimenti) una battaglia tutta personale, non una guerra dentro cui la volevano trascinare, e che comunque è stata persa.
Se anche Okja, per Bong, è stata una battaglia, lui l'ha persa.
L'ha persa nonostante la brava protagonista Seo Hyun An, migliore di quasi tutto il cast anglosassone; nonostante un Paul Dano che, quasi con timidezza, agli antipodi rispetto all'isteria fuori controllo di Jake Gyllenhaal, si conferma uno dei migliori attori della sua generazione.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival