Non aprite quella porta: il mito di Leatherface aggiornato all'era dello streaming e della cancel culture
Disponibile su Netflix dal 18 febbraio il nuovo horror che riprende il filo della mitologia del film diretto da Tobe Hooper nel 1974 e del suo sanguinario protagonista. Che questa volta si scaglia contro ventenni gentrificatori e woke. La recensione di Federico Gironi.
Può sembrare strano, o forse a pensarci bene no, ma uno dei momenti più riusciti di questo nuovo Non aprite quella porta, che sta su Netflix, è una battuta piuttosto divertente.
Leatherface è già in piena furia omicida, e sale su un bus dove un gruppo di fighetti di città sta facendo un party. Si para davanti a questo gruppetto di scemi in tutta la sua terrificante presenza: enorme, massiccio, con la maschera di pelle umana, il grembiule insanguinato e la sega elettrica d’ordinanza. Reazione degli scemi: tirare fuori i cellulari per fare foto e video. E uno di loro, il più scemo di tutti, che pure intuisce qualcosa di potenzialmente pericoloso, dice: “Try anything and you’re canceled, bro”. Laddove la cancellazione cui si fa riferimento, prima che arrivi la sua dalla faccia della terra, è quella della violenza isterica e bigotta dei social, quella della cosiddetta cancel culture, che è ben più reale e pericolosa delle imprese di Faccia di cuoio, anche di queste nuove qui.
Perché saranno i tempi, sarà lo streaming, sarà l’inconscio, sarà che il regista del film, che si chiama David Blue Garcia, è orgogliosamente texano, ma alla fine dei conti il nuovo Non aprite quella porta di questa cosa qui parla, più che di altro. Dello scontro tra due culture. E dei tempi che corrono.
Prima scena: una ragazza guarda tra l’affascinato e lo sconvolto un video che ricostruisce gli eventi del ‘73, che poi sarebbero quelli del film di Tobe Hooper. Il video è su un vecchio televisiore, il televisore è nel lurido e spoglio negozietto di una stazione di servizio nel bel mezzo del niente texano. Il negozietto, tra energy drink, patatine e liquori, è pieno di vecchi ritagli e nuovi souvenir gadget per turisti a tema “Texas Chainsaw Massacre”, a tema motosega: magliette, cavatappi, robe così.
Leatherface, insomma, è divento oggetto di consumo. Lo sappiamo da un bel po’.
Fuori ci sono gli amici della ragazza, con lei gli altri protagonisti della vicenda. Non stanno facendo rifornimento, perché viaggiano a bordo di un’auto elettrica, di quelle ipertecnologiche, di quelle che hanno perfino la guida automatica (prendete nota del dettaglio). Sono ragazzi di città: vogliono gentrificare una cittadina lì vicino, praticamente una città fantasma, per vivere “in un posto migliore”, lontani da ansie e violenze, e per fare dei soldi; sono ossessionati dalla correttezza politica.
Immaginate la loro reazione quando a fare benzina arriva un texano purosangue a bordo di un enorme pickup da mille litri al chilometro, anche lui con la divisa d’ordinanza: jeans e stivali, camicia a scacchi aperta su t-shirt bianca, barba incolta e pistola alla cintura.
L’incontro non è casuale. Il texano se lo ritroveranno anche nella loro città fantasma: è quello che deve gare alcuni lavori per loro
Alcuni scambi tra questi due mondi valgono quasi quanto la battuta iniziale. Per esempio lui chiede: “Che siete, una setta?”. “Siamo persone idealiste che vogliono costruire un mondo migliore”, risponde una biondina. “Quindi siete una setta,” conclude lui.
Oppure: la ragazza dell’inizio, la vera protagonista del film, fa al texano “Perché sei così nichilista? A uno che sparge gasolio nell’atmosfera in quel modo non frega un cazzo proprio di niente.” E lui: “Sono un texano. Non mi piace chi mi dice cosa devo fare, soprattutto la gente di città, spocchiosa, ricca e moralista”.
Non importa granché chi pensiate abbia ragione, anche se tutti i torti il texano non ha. Quel che importa è questo nuovo Non aprite quella porta una cosa la dice piuttosto chiaramente: se Leatherface torna a uccidere, a cinquant’anni dalle malefatte di Hooper, è per colpa di questi ragazzetti che arrivano con arroganza a turbare un equilibrio, a pretendere quello che - verrà fuori - di diritto non è loro.
Non è una giustificazione, né una vera e propria presa di posizione ideologica. Ma è indubbio, anche da altri dettagli che non è qui il caso di stare a raccontare, che in questo film emergano piccoli tentativi di umanizzazione del mostro. Ancora una volta, segno dei tempi.
Per il resto, ordinaria amministrazione: un po' di originalità nelle uccisioni (la prima, devo dire, niente male), tasso di gore sopra la media delle produzioni mainstream, un passaggio repentino e poco chiaro dal solleone a una notte di pioggia. Da sottolineare anche che il comportamento di molti dei protagonisti, quando c’è da non farsi sentire o da scappare, è meno cretino e illogico di quello di tanti altri horror. Insomma, niente di trascendentale, anzi, ma non ci si annoia. Anche perché tutto si conclude in meno di un'ora e mezza.
Poi si gioca con la mitologia, certo: non solo quella di Leatherface ma anche quella di Sally Hardesty, la protagonista interpretata da Marilyn Burns nel film di Hooper, l’unica sopravvissuta al massacro. Ci si gioca con lo stesso spirito implicitamente raccontato nella sequenza iniziale, quella dei souvenir della motosega e dei massacri: lo spirito della mercificazione di tutto. Prendere o lasciare.
D’altronde il Texas di questo film, in realtà, è la Bulgaria. Il texano purosangue un attore irlandese. Ancora una volta, segno dei tempi.
Come il fatto che a oggi, in Italia, l'originale di Hooper non si può vedere in abbonamento su nessuna piattaforma di streaming, ma c'è solo a pagamanto.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival