Mudbound: recensione del dramma sulla convivenza razziale in Mississippi con Cerey Mulligan visto alla Festa di Roma
A cavallo della Seconda guerra mondiale un affresco sulla tolleranza.
Il vero protagonista di Mudbound è un tale di nome Jim Crow. Inutile cercarlo nei titoli di coda, non lo troverete. Sono però le leggi che prendono il suo nome, emanate nel sud degli Stati Uniti alla fine dell’800 e valide fino alla metà degli anni ’60, il punto di partenza e di convivenza nel film di due famiglie, unite dal coltivare una terra comune. Siccome siamo nel delta del Mississippi, padre padrone del rimo di vita del profondo sud come il Nilo nell’Egitto dei faraoni, i loro sono legami di fango; ed ecco tradotto il titolo originale. Le leggi di Jim Crow, una delle pagine più vergognose della storia degli Stati Uniti, sancirono legalmente, a livello statale e locale, la segregazione razziale. Il trionfo dell’ipocrisia fu lo slogan che le accompagnò, “separati, ma uguali”, riferito ai neri e ai bianchi.
Qui però non si parla di cause legali, come nel superiore Loving dello scorso anno, e l’ambientazione ci porta una quindicina d’anni prima, fra gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale e l'immediata conclusione. Nonostante siamo nel XX secolo, la lotta contro la terra di due famiglie sembra quella di pionieri alla conquista del west. Ci sono i McAllan, bianchi, trasferiti da poco da Memphis, e i Jackson, mezzadri da sempre, con un cognome che più afroamericano non si può.
La vita di campagna per chi viene dalla città non è facile, i sogni di gloria spesso cozzano contro un clima imprevedibile, tanto quanto l’umore del razzistissimo capofamiglia al seguito, un vedovo con il cuore e la tessera del Ku Klux Klan. All’interno delle mura domestiche, poi, rigorosamente spartane e di legno marcito, Carey Mulligan cresce con amore le due piccole di casa, ma non è certo entusiasta dello scostante Jason Clarke, marito mai soddisfatto. In casa Jackson, invece, i due coniugi si amano in maniera totale e tenera, ma il rapporto con i McAllan è discontinuo: in fondo non sono troppo razzisti, specie i giovani, ma intorno a loro la segregazione regna incontrastata.
La grande cesura arriva con la chiamata alle armi di James McAllan (Garrett Hedlund) e Ronsel Jackson (Jason Mitchell). Per loro, come milioni di soldati, è la prima volta lontano da casa, non parliamo all’estero, al di là dell’Atlantico. Migliaia di neri furono gettati in prima linea, senza troppo preoccuparsi del buon Jim Crow, e sperimentarono in prima persona la libertà di essere visti (dagli europei) come esotici, sì, ma non segregati. Il ritorno dalla Guerra, per loro come per ogni generazione partita armi in pugno, sarà devastante, fra vecchie regole diventate inaccettabili e il trauma del fronte a riaffacciarsi costantemente sotto forma di quella che ora si chiama sindrome da stress post traumatico.
I due reduci si riconoscono le rispettive ferite e diventano amici, violando le regole della zona in maniera inaccettabile, dimostrando come la famiglia possa dimostrarsi opprimente, quando popolata da generazioni incapace di capirsi, ma anche solo di dialogare. Dee Rees, scuola Sundance, ci ricorda come la convivenza con il prossimo passi attraverso una costante messa in discussione di noi stessi e delle nostre radici, e quindi convinzioni. Da una società mobile che spezzi le catene di una routine vissuta anche solo perché mai messa in discussione. Usate la vostra testa, ci invita; al di là delle apparenze, chi ci sta vicino ha i calli alle mani per aver lavorato nei campi per tutto il giorno proprio come noi. Nel 1944 come nel 2017, in campagna come a Charlottesville o in un ufficio.
Il filone sul razzismo nel profondo Sud, declinato nelle varie epoche, è ormai da un paio d’anni molto attivo; Mudbound si inserisce con una storia epica, tratta dal romanzo di Hillary Jordan, che evita manicheismi e troppe schematizzazioni, fa venire rabbia, come è giusto che sia, e dimostra le buone capacità di narrazine di Dee Rees, accompagnandoci senza cali di tensione o sguardi all'orologia per i 134 minuti di film.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito