Montparnasse femminile singolare: recensione della commedia drammatica francese Camera d'or a Cannes 2017
Opera prima di Leonora Serraille con una scatenata Laetitia Dosch.
Normalmente, per rifarsi una vita si abbandona la monotonia impersonale e fracassana della vita metropolitana contemporanea e ci si rifugia altrove: che sia in un buon retiro rurale o in un’altra realtà urbana impersonale. Invece, in Montparnasse femminile singolare, la scapestrata Paula abbandona la provincia per tornare dopo vari anni proprio nella giungla d’asfalto e lavagna meglio nota come Parigi. L’unico volto amico non lo vede neanche, visto che le risponde solo al telefono, e una volta al citofono, ma non le apre nemmeno la porta di casa; si tratta del suo ex, o forse lei spera possa essere ancora una relazione aggiustabile. Quindi l’unico alleato rimane un gatto, unico pegno d’amore insieme a una porta sbattuta in faccia. Soldi non ne ha, al massimo si guadagna qualche ora in un’ospedale, reparto psichiatrico.
Proprio lì, appena la conosciamo, è insopportabile, vittima di un delirio di parole sconclusionate e rivolte contro tutti e nessuno, probabilmente contro la città stessa. È solo l’inizio, perché la Parigi mostrata nel film è fredda, impersonale, ostile verso ogni anima arrivi a trovarla per cercar fortuna, figuriamoci se non ha un euro e cerca un lavoro. Troverà solo qualcosa alla giornata, meglio se in nero, degna rappresentante di una gioventù francese (ma ancor meno fortuna hanno i coetanei italiani o europei) con meno tutele e molto più precariato di quanto abbiano mai vissuto le generazioni precedenti. Paula trova due piccoli lavori part time: uno in un negozio d’abbigliamento senz’anima in uno scalcagnato centro commerciale e l’altro come baby sitter presso una sciura della buona borghesia ipocrita che affolla i palazzi d’ardesia della rive gauche parigina. Quelle che hanno ancora le camere per la servitù nel sottotetto, con il bagno nel corridoio, ‘ma abbiamo appena messo una stufa per l’inverno’. Per loro ci sono le scale anguste, riservate al personale di servizio; la città ne è ancora piena.
Léonor Serraille, la regista esordiente fresca di diploma alla Fémis, la prestigiosa scuola di cinema parigina, ha fatto un percorso simile a quello di Paula. Anche lei veniva da fuori, da Lione, è arrivata con pochi soldi, molta voglia di studiare e un sogno chiamato cinema. Ha fatto i lavoretti che spettano alla sua protagonista nel film, maturando un senso di estraneità alla metropoli delle luci e delle storie di successo che l'ha aiutata a iniettare un siero della verità nelle dinamiche picaresche raccontate nel film, vincitore della Camera d’or per la miglior opera prima a Cannes 2017.
Si diceva che Paula all’inizio è poco sopportabile, sappiate però che, non alla fine, ma già verso la metà, vorreste abbracciarla, poi ancora darle una pacca sulla spalla e quindi mandarla di nuovo a quel paese. È una giostra, un ottovolante quello in cui si avventura un’attrice giovane che adoriamo, Laetitia Dosch, per interpretarla. Una donna vera, in carne, ossa e tante contraddizioni, una persona normale, dall’umore pieno di smagliature e tante buone intenzioni che si trasformano in azioni evitabili. Una jeune femme (come il titolo originale), che si trova costretta a vivere a livello strada, non entra nei palazzi dei bei quartieri, se non appunto dalle scale di servizio, e perciò ha il tempo di osservare intorno, di guardare negli occhi chi la circonda. Prende la metropolitana e passeggia di notte, si fa incuriosire dalle storie che ascolta, senza star solo a lamentarsi di quello che non le va bene. Paula è reale, la potrete incontrare, vuole solo ricominciare daccapo, ostinata e allegra. E Parigi solo sa quanto ce ne sia bisogno, di un poco di allegria.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito