Molto forte, incredibilmente vicino - la recensione del film di Stephen Daldry

22 maggio 2012
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Era indubbiamente difficile tradurre al cinema un romanzo intenso e complesso come quello firmato da Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino.



Era indubbiamente difficile tradurre al cinema un romanzo intenso e complesso come quello firmato da Jonathan Safran Foer.
Da un lato per la densità e la stratificazione del suo racconto, dall’altro perché è - se è vero che la sua storia è potente e bellissima - non è il tipo di narrazione che può riuscire a guadagnare alcunché da una sua traduzione in immagini. Diventare un film "migliore".

Per catturare meglio le sfumature agrodolci, disallineate e universali del romanzo, sarebbe quindi servita una sensibilità meno oleografica e omologata di quella di Stephen Daldry, il regista di drammi dal fazzoletto facile come Billy Elliot, The Hours e The Reader.
Appoggiandosi su un copione di Eric Roth in modalità più vicina a Forrest Gump che non a Munich o Insider, il regista britannico (che pure si conferma abile a dirigere giovani attori) non ha gettato del tutto alle ortiche la forza della vicenda dolorosa del giovane Oskar Shell, della sua missione di ricerca, del suo rapporto con la misteriosa figura del muto inquilino della nonna. L’ha però deprivata di quasi tutti gli accenti più bizzarri e obliqui, delle sue acute stranezze, della sua serena e propositiva anticonvenzionalità.

Così, se l’Oskar del romanzo è solo “sospettato” di avere la Sindrome di Asperger, ma è in realtà solo un bambino non omologato, ironico, ferito e di rara intelligenza, nel film viene presentato come un malato rabbioso, la cui ostinata disperazione appare assai più evidente della sua curiosità e della sua simpatia.

Parallelamente (e coerentemente col disegno generale del film) ad essere sottolineati in maniera più sfacciata e monodimensionale rispetto a quanto avveniva nel romanzo sono anche i legami con l’11/9, riducendo così forse la portata più universale e filosofica di una storia che, in ogni caso, non perde del tutto la sua efficacia sul grande schermo.

È retorico, però,
Molto forte, incredibilmente vicino.
Anche (e, a volte, soprattutto) quando ti porta vicino alla commozione. Le peculiari asperità i rilievi sarcastici e i ruvidi solchi esperienziali del romanzo di Safran Foer sono stati qui hollywoodiamente stuccati, ammorbiditi, omogeneizzati ad uso e consumo del vasto pubblico e della lacrima facile.
Il senso di una complessa e strutturata quest che lo (ri)porta nel Mondo e nella Vita, ridotta a mera ricomposizione di un'idea di famiglia, invece che scambio ampio che riguarda l'esperienza umana nel suo complesso.
E, francamente, sono da orticaria certi momenti di flashback del giovane Oskar con il padre interpretato da Tom Hanks e quasi tutti quelli che vedono protagonista una melensa Sandra Bullock nei panni della madre del bambino.

Al film di Dadry, quindi, oltre che al potere inaffondabile della storia, non rimane che aggrapparsi a quell’altro, lussuosissimo salvagente di cui dispone: un Max Von Sydow magnetico, capace di convincere ed emozionare pur privato dell’uso della parola e di quel passato che, invece, il romanzo raccontava con intelligenza e ovvio legame col presente.
E quando Oskar è con quello che potrebbe essere suo nonno, ecco che Molto forte, incredibilmente vicino si avvicina a raggiungere il suo scopo.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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