Mickey 17, la recensione: Bong racconta cosa vuol dire essere umani, ma il film è più vicino a Okja che a Parasite

15 febbraio 2025
2.5 di 5
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Presentato al Festival di Berlino, il nuovo film del regista coreano Bong Joon-ho con Robert Pattinson arriva al cinema il 6 marzo 2025. La recensione di Mickey 17 di Federico Gironi.

Mickey 17, la recensione: Bong racconta cosa vuol dire essere umani, ma il film è più vicino a Okja che a Parasite

Bong Joon-ho è tornato, ma scordatevi il Bong di Parasite. Non è perché siano passati sei anni da quel film che ha vinto di tutto, e che comunque era ed è un grandissimo film: non è una questione di tempo. Perché per esempio di anni ne son passati addirittura otto da Okja, che pure è in qualche modo l’elemento primigenio, il precedente anello di una catena evolutiva di cui Mickey 17 è il successivo. E non è che dica questo solo perché lì c’erano i maiali giganti geneticamente modificati, e qui invece, sul pianeta Nifheim, delle creature aliene simili a enormi porcellini di Sant’Antonio (in alcuni casi, ibridati coi bufali).
Dico questo perché Mickey 17 parte da premesse analoghe (i misfatti dell’umanità); perché ancora una volta si pone come come racconto morale mascherato da commedia e fantascienza; e ancor di più perché, come nel caso di Okja, è un film magari non propriamente brutto, ma sicuramente sbagliato.

La premessa è ben nota. C’è Robert Pattinson nei panni di un non intelligentissimo disperato che ha accettato di diventare un “sacrificabile”, una cavia umana che viene ristampata in 3D (il materiale con cui avviene la stampa è un significativo aggiornamento del cibo di Snowpiercer), con tanto di iniezione dei suoi ricordi, ogni volta che fa una brutta fine. C’è una missione di colonizzazione di un pianeta alieno, guidata da un grottesco personaggio, ex deputato del congresso più volte trombato, che si è riciclato come leader tecno-capitalist-religioso, e che è chiaramente un caricaturale mix di Trump e Musk. C’è, a un certo punto, pure una questione di apparente contrapposizione tra gli umani colonizzatori e gli insettoni alieni residenti di Nifheim. La questione, insomma, è chiara: cosa vuol dire continuare a essere umani, in tempi di capitalismo selvaggio, di post-umano, di politiche disumane, di guerra tra culture?

Film sbagliato o no, Bong è un autore. E sappiamo bene come la questione umana sia quella che, con angolazioni, stili e approcci diversi, il coreano ha affrontato in ogni suo film. E sappiamo, anche, come le sue posizioni sul capitalismo siano emerse chiare film dopo film. Mickey 17 quindi porta avanti tesi nobili e condivisibili, certo, ma con un’ovvietà che lascia un po’ perplessi. E le questioni filosofiche legate alla questione della rinascita continua di Mickey - e a un certo punto perfino al suo raddoppio, quando il numero 17 della serie sopravvive a un incidente e torna a casa a numero 18 già stampato, e i due hanno tratti caratteriali del tutto opposti - vengono sprecate dal film dopo averle più o meno maldestramente evocate.

Sottile come spessore, ovvio nei contenuti, Mickey 17 va allora osservato solo nella superficie, e in qualche dettaglio. La superficie tradisce un budget sostanzioso, ma tolte un paio di belle immagini (tra cui quella d’apertura) c’è ben poco in quello che scorre sullo schermo che assuma una qualche rilevanza stilistica, estetica, cinematografica. Bong è solo concentrato a fare di Mickey 17 un film grottesco e esagerato, volutamente ridicolo: anzi, tragicomico. Perché nella sua versione “originale”, la 17 del titolo, il Mickey di un Pattinson che mi è parso limitato e ingessato è in fin dei conti una specie di Fantozzi futurista, che però ha dalla sua almeno l’aspetto fisico e il sex appeal: e infatti diventa giocattolo sessuale, anche. E in questo marasma massimalista i dettagli tendono a svanire.

Man mano poi che il suo film va avanti, tra rivolte accennate e grandiosità marziane, Bong sembra quasi provocare lo spettatore: vi bevete la retorica della fantascienza di Star Wars e Dune, sembra dire, perché non potere farvi andare bene questa?
Che poi, a pensarci bene, c'è già stato di recente un altro film che mirava a usare scheletro e figure di modelli, declinandoli in chiave comica e grottesca per indagare la questione della natura umana: era di L'impero di Bruno Dumont. E nel cast del film, guarda caso, c'era anche Anamaria Vartolomei, attrice che qui Bong spreca completamente. Come spreca buona parte del suo cast, confermando qualche problemino nella gestione degli attori occidentali.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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