Michel Petrucciani - Nel titolo e nel nome del regista c'è tutto
13 maggio 2011
A volte basta il nome di un regista a far battezzare dall'inizio un film. Specie se si tratta di un documentario monografico su un celebre personaggio. Preconcetti? Ma sì, chi non ne ha: l'importante è non esserne schiavi ed essere capaci di mutare un giudizio di fronte a una sorpresa.
Vai allo speciale Festival di Cannes 2011
Michel Petrucciani - la recensione del film di Michael Radford
A volte basta il nome di un regista a far battezzare dall'inizio un film. Specie se si tratta di un documentario monografico su un celebre personaggio.
Preconcetti? Ma sì, chi non ne ha: l'importante è non esserne schiavi ed essere capaci di mutare un giudizio di fronte a una sorpresa.
Di sorprese, però il documentario omonimo che Michael Radford dedica al grande pianista jazz Michel Petrucciani, non ne riserva molte.
Nel suo film, Radford racconta infatti Petrucciani esattamente secondo le coordinate che era facile immaginare: dalla manifestazione fin dall'infanzia del suo grande talento musicale alla convivenza con la malattia con cui era nato, l'osteogenesi imperfetta, che gli ha imposto ossa fragili e deformi e una particolare forma di nanismo. E ancora la sua rapida scalata verso le vette dell'Olimpo jazzistico mondiale, l'irrefrenabile voglia di vivere chiaramente figlia della consapevolezza di una morte precoce, la sua grande umanità unita ai demoni personali che lo consumavano nel corpo come nello spirito. Tutto prevedibile, tutto portato avanti con una correttezza formale che è innegabile ma che sa più di scarsa personalità registica che non di voglia di rendersi volutamente anonimo.
Paradossalmente, in un film che in maniera inevitabile è dominato dalla musica prodotta dall'uomo cui è dedicato, al documentario Michel Petrucciani manca il jazz: inteso come attitudine, come fantasia, come improvvisazione. Come stile di vita. Quello stile che Petrucciani aveva declinato in maniera tanto estrema e personale, così come faceva con la musica quando sedeva di fronte alla tastiera di un pianoforte.
Non a caso, è nelle poche deviazioni narrative, volontarie e non, nei rari fuori tempo e nelle sporadicissime note inaspettate che il documentario di Radford si solleva per pochi secondi dalla sua medietà, dalla mano del mestierante. Come quando l'arrogante sincerità di Petrucciani gli lascia scappare qualche parola o qualche sguardo fuori dal personaggio, o quando in due rapidissime e sbrigative scene emerge dalle parole di suo figlio Alexandre (vittima della stessa sindrome del padre) il dolore di una condizione e il peso di un genitore tanto ingombrante.
Emersioni subitanee, rapidamente abbandonate quasi con sconcerto per rimpombare dentro una canonicità che sembra quella della melodia dell'ennesima canzonetta pop tormentone dell'estate.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival
Suggerisci una correzione per la recensione