Mi rifaccio vivo - la recensione del film di Sergio Rubini

06 maggio 2013
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Parte bene la prima commedia pura di Sergio Rubini, ma si scontra con alcune scelte attoriali forse non giuste e con un ritmo troppo altalenante.

Mi rifaccio vivo - la recensione del film di Sergio Rubini

Negli ormai remoti tempi del muto, la conditio sine qua non per assurgere al firmamento delle star cinematografiche era la capacità di recitare con il corpo e con il viso. Poi è arrivato il sonoro e con esso l'impero della parola.
Più di ottant'anni sono passati dal film che ha segnato questa epocale rivoluzione e, se restringiamo lo sguardo alle nostre commedie, l'impressione è che, decennio dopo decennio, il gesto sia stato sostituito dalla battuta, sempre meno scritta e sempre più espressione del narcisismo del singolo mattatore.
Eppure, a ben guardare, in Italia ci sono ancora degli artisti dello spettacolo dotati di una fisicità pari a quella di Buster Keaton e Harold Lloyd.

Fra questi annoveriamo certamente Emilio Solfrizzi, già fra i nostri attori preferiti ben prima del successo di Tutti pazzi per amore.
Della sua capacità di scatenare l'ilarità con un sopracciglio, un goffo movimento o una camminata furtiva se n'è accorto anche Sergio Rubini, che lo ha voluto protagonista della sua prima vera e propria commedia, nella quale gli ha affiancato il comico puro Lillo, addomesticato per l'occasione ad animale da set.

Che in Mi rifaccio vivo quest'ultimo torni dall'aldilà nelle fattezze di Solfrizzi è cosa nota, come è risaputo
il fatto che, specchiandosi, Solfrizzi veda un Lillo che ragiona e che vive di vita propria.
La trovata è buffa geniale e dà al film un côté fra lo slapstick e la pochade che lo rende inizialmente fresco, frizzante, piacevolmente leggero.
Rubini, però, ha ben altro in mente. Ciò che gli sta a cuore, in opposizione al rancore che era il leitmotiv de L'uomo nero, è il perdono: nella fattispecie la riconciliazione di Biagio Bianchetti con il rivale di sempre Ottone di Valerio, la cui erba non è poi tanto più verde della sua. Il regista, insomma, mette ancora una volta al centro di un suo film un uomo che fa un bilancio della propria vita. Se però, ne La terra e ne L'amore ritorna il messaggio arrivava, potente e viscerale, in Mi rifaccio vivo questo scompare, fra le innumerevoli volute di una parte centrale dilatata e tutta incentrata sulle alterne vicende dei nemici amici Emilio Solfrizzi/Neri Marcorè.

A lasciare perplessi, in particolare, è il personaggio del secondo, che soffre di staticità e di una certa mancanza di spessore.
L'impressione è che non sia giusta la scelta di Marcorè, che quando deve far ridere scivola nel caricaturale, finendo per guastare anche i momenti in cui dovrebbe invece farsi portavoce delle riflessioni da cui parte il racconto.
A ben guardare, infatti, i momenti seri ci sono, il problema è che Solfrizzi non ce la fa da solo a incarnare l'anima profonda di un film che invita a liberarsi da astio, invidia e vittimismo per accogliere e capire l'altro.
E non aiutano, in questo senso, nemmeno i personaggi femminili, che, ad eccezione della tenera signora Bianchetti di Vanessa Incontrada, risultano istericamente sopra le righe.

La commedia è un genere difficilissimo, va detto, e Sergio Rubini ha dimostrato coraggio nel voler tentare il nuovo attraverso il recupero di modelli più francesi e anglosassoni che italiani. Ma di quei film Mi rifaccio vivo non ha nè la perfezione del meccanismo narrativo, nè la giusta brevità, nè il corretto dosaggio dei vari mood.
Peccato....
Amiamo il cinema di Rubini, ma lo preferiamo di gran lunga quando è più doloroso, più cattivo, più surreale, più autobiografico.




  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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