Mai così vicini - la recensione del film con Michael Douglas e Diane Keaton

04 luglio 2014
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A sedere dietro la macchina da presa, Rob Reiner.

Mai così vicini - la recensione del film con Michael Douglas e Diane Keaton

Certo, dietro un film – sistema industriale a parte – c'è l'arte, la creatività, l'estro. Ma c'è anche molta matematica, e molta di quella che si usa in chimica, per studiare e strutturare le reazioni.
Che allora Mai così vicini sia il film che è, è matematica e chimica conseguenza del fatto che a dirigerlo c'è il Rob Reiner che è stato regista di Harry ti presento Sally, e che a scriverlo c'è il Mark Andrus che è stato sceneggiatore di Qualcosa è cambiato.
Perché le schermaglie uomo-donna sono sempre le stesse, che la coppia da racconatre sia una di trentenni alla fine degli anni Novanta o una di settantenni all'inizio di un Terzo Millennio che non comprendono del tutto, ma che non rifiutano.
Perché i ragionamenti sulla vita e sulla maturità non cambiano, se ad interpretare il burbero nevrotico di turno (che però sotto sotto ha un cuore d'oro), c'è un Michael Douglas invece di un Jack Nicholson.

Reiner, che a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta ha inanellato una serie di film piuttosto impressionante, ma che già allora guardava senza nostalgie al passato, fa capire fin dalle primissime scene, dalla musica che sceglie (“Both Sides Now” di Judy Collins) e dall'auto che guida Douglas (una Mercedes-Benz 220SE Cabriolet del 1963), che lui della modernità se ne infischia, pur non ignorandola (i filmini fatti con l'iPhone stan lì a dimostrarlo).
Un po' perché il suo stile è sempre stato quello, classicheggiante, un po' perché la bolla temporale è funzionale ad un ragionamento su persone, rapporti e sentimenti che riguarda la Natura dell'uomo e non il tempo contingente che sta vivendo.
La nascita, la vita, la morte, l'innamoramento, l'amore: tutto è parte del grande ciclo dell'esistenza, da osservare e ammirare come i protagonisti del film, che alla fine si ritrovano in magica armonia (ma senza bibite gassate) di fronte al filmino della protagonista più giovane  - la nipote che il burbero Douglas si ritrova improvvisamente tra le mani (e i piedi) – ha fatto per raccontare della prodigiosa metamorfosi del bruco in farfalla.

Reiner, in Mai così vicini, racconta invece quella dell'Oren interpretato da Douglas, e s'immagina il suo pubblico sereno e beato a guardare il suo lavoro proprio come quei personaggi lì guardano il filmino del bruco.
Che poi non è questione di preferire il bruco o la farfalla, l'Oren scorbutico o quello ammobidito e domato dal più potente agente catalizzatore del mondo, l'amore: per Reiner c'è solo da fare i conti con quello che è.
Allora certo che possono convivere, nel film e nella vita, la piccola Shangri-La di Oren Little e i baratri oscuri della tossicodipendenza, gli stereotipi sui messicani e le nostalgie tardo-hippie,  le battute acide, taglienti e ficcanti e le melensaggini strappalacrime.

Un'osservazione però, va fatta: che l'Oren di Douglas abbia trovato preferibile l'amore zuccheroso con la placidamene nevrotica Keaton (che oramai recita che è tutto un birignao) all'amicizia ruvida e sarcastica con Frances Sternhagen, sigaretta sempre accesa tra le dita e lingua perfettamente affilata, lascia perplessi.
Quale dei duetti funzioni meglio, non è nemmeno il caso di starlo a specificare.




  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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