Lovely Boy: recensione del film con Andrea Carpenzano

19 settembre 2024
3.5 di 5

Debutta in streaming su Netflix l'ottimo film di Francesco Lettieri che racconta la parabola di un giovane trapper romano. La recensione di Lovely Boy di Federico Gironi.

Lovely Boy: recensione del film con Andrea Carpenzano

Ho cinquant’anni, due figlie, e posso dire a ragion veduta che della trap a me non interessa nulla di nulla, e che anzi proprio non mi piace, e addirittura penso, come tanti di noialtri anziani, che il mondo ne farebbe benissimo a meno, di quei testi e di quell’immaginario.
Questo non vuol dire che non sia stato capace di apprezzare, e molto, un film che - trap o non trap - quel mondo e quell’immaginario li tocca da vicinissimo, e con cognizione di causa. Un po’ perché, per ovvie ragioni professionali, posso permettermi di snobbare un genere musicale, ma il cinema no; ma soprattutto perché Francesco Lettieri è uno bravo, tanto bravo da saper mescolare l’estetica del videoclip (qui a tratti indispensabile) con quella del cinema "vero", e ancora di più perché Lovely Boy non parla della trap, se non a livello superficiale, ma parla di quei vuoti e quegli smarrimenti che ci riguardano un po’ tutti, nei tempi non luminosissimi che viviamo e che si annidano, guarda un po’, proprio sotto alla superficie.

C’è uno scambio di battute che, a questo proposito, mi pare esemplare. Nic, il musicista romano interpretato da un fenomenale Andrea Carpenzano, sta passeggiando in un bosco con Daniele (Daniele Del Plavignano) un membro anziano della comunità di recupero sulle Dolomiti dove è stato mandato per liberarsi dai suoi problemi con varie sostanze. Daniele ha preso Nic sotto la sua ala, cerca con modi spicci e ruvidi, ma al tempo stesso gentili, di aiutarlo e proteggerlo. Stanno parlando della musica di Nic, e Daniele dice al ragazzo che no, non gli piace, il rap non l’ha mai capito. Nic risponde che no, lui mica da rap: “Il rap ha contenuti, noi no, lo facciamo apposta”.
Non è un’ammissione, è una dichiarazione poetica. Esistenziale. È, anche, uno dei tanti esempi della cura con cui Lovely Boy è stato scritto dallo stesso Lettieri assieme a Peppe Fiore.

La musica di Nic non ha contenuti, è vuota come la sua esistenza, e a quel vuoto cerca di ovviare con la droga, senza limiti, fino a arrivare vicinissimo al punto di non ritorno e essere spedito lassù in montagna. D’altronde, non è che le esistenze degli altri siano pienissime, e Nic avrà modo di constatarlo sia nel corso nella sua ascesa musicale e caduta tossicologica, sia - in maniera ben più drastica e dolorosamente istruttiva, nella comunità che poi frequenterà. E trovare la strada, una strada, in un mondo dove non solo non ci sono più indicazioni, ma la confusione regna sovrana, sarà difficile. Perché il problema vero e paradossale di Nic, sempre in mezzo alla gente, è la solitudine (lovely diventa infatti lonely), una solitudine che deriva da una mancanza di direzione e di senso che parte da dentro. Che è condizione umana e universale.

Lettieri - che grazie al cielo non si sogna nemmeno lontanamente di fare la morale a nessuno, né tantomeno di essere pur vagamente moralista - intreccia i due piani temporali, procede per alternanza trovando punti di contatto tra quei due mondi e quelle due esperienze. Le conclusioni cui arriva sono magari ovvie - perché quel che serve, e che conta, pur nella solitudine che continua a circonda tutti, è trovare del senso e della verità, magari fugaci, nei contatti umani - ma niente affatto banali. Necessarie, piuttosto. Forse perfino naturali.

Lovely Boy è un film di segni, come i tatuaggi sul volto di Nic, e di segnali che i protagonisti possono intercettare o che, più spesso, non riescono a cogliere. Un film che costantemente, in maniera quasi metalinguistica, si ossessiona con la superficie, ma che è tutt’altro che vuoto, riempito com’è di consapevolezza e anche di conoscenza tattica dell’oggetto del discorso (i trapper che, per esempio, non sono affatto figli del disagio socio-economico, come un tempo i rapper, ma delle trappole e dei vuoti del mondo borghese e della società del benessere). Un film amaro, ritratto preciso e oggettivo dei nostri tempi, dove anche i segnali della speranza sono affievoliti dalla consapevolezza che la vita, se non proprio “una merda”, come dice Nic alla fine, di certo non è semplice né accomodante per nessuno.
Letteri si conferma uno che ha cose da dire e che sa come dirle, e che usa il cinema con una consapevolezza non comune: basterebbero non solo la citata scrittura, ma anche l’uso della macchina da presa e delle luci, e sopra ogni altra cosa il livello molto alto della recitazione di tutti gli attori, non solo Carpenzano, per dimostralo.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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