Lovelace - recensione del biopic sulla prima pornostar della storia
Dei due film biografici su Linda Lovelace messi in cantiere quasi contemporaneamente, è quello firmato da Rob Epstein, Jeffrey Friedman e interpretato da Amanda Seyfried a debuttare per primo.
Dei due film biografici su Linda Lovelace messi in cantiere quasi contemporaneamente, è quello firmato da Rob Epstein e Jeffrey Friedman e interpretato da Amanda Seyfried a debuttare per primo di fronte al pubblico, battendo sul tempo il più travagliato progetto di Matthew Wilder che, scartata Lindsay Lohan, ha scelto come protagonista Malin Akerman.
Da sempre attenti nel raccontare questioni di gender o legate al mondo della controcultura - prima col documentario, poi con l’esordio nella fiction de l’Urlo – e, in senso più ampio, un periodo complesso della storia americana e mondiale come i Seventies, Epstein e Friedman potevano sembrare nomi perfetti per raccontare la controversa e triste parabola di Linda Lovelace: la prima pornostar della storia, in realtà una giovane donna incastrata in un matrimonio con un uomo violento e bieco, pronto a sfruttarla in ogni modo possibile.
E, invece, il loro Lovelace è un film esile e scialbo, che delude proprio laddove ci si poteva aspettare qualche risultato.
Che tipo di film sia Lovelace lo si capisce fin dalle primissime inquadrature, la cui fotografia sgranata e patinata in modo vintage fa il paio con l’attenzione maniacale a decor e costumi che ricostruiscono con grande accuratezza il setting degli anni Settanta. Ma nelle quali è subito evidente una certa superficialità di sguardo che si traduce, anche, in una pruderie che porterà all’autocensura delle parti più scabrose di una storia già nota.
Superato nell’approfondimento della protagonista dal documentario Inside Deep Throat (che come Lovelace s’incentrava sul rapporto tra Linda e il marito/sfruttatore Chuck Trayner) e come spaccato di un momento storico e culturale che travalichi la mera questione estetica da Boogie Nights, il film di Epstein e Friedman non è nemmeno in grado di essere particolarmente efficace nell’unico ambito rimasto a sua disposizione ed evidentemente abbracciato con eccessivo trasporto: il racconto di una vittima, passiva e supina.
Amanda Seyfried, nei panni della protagonista, è più convincente dei pochissimi topless che concede che non nella messa in scena delle sue fragilità, e i due registi non sono in grado di stimolarla e supportarla per dare alla vicenda il voluto spessore emotivo; complice anche un costante alternarsi di registri per il quale dalla strizzata d’occhio e l’iniezione di ironia su un mondo “verace” come quello del porno si passa al momento più serio e drammatico.
Ecco che Lovelace allora rimane un film di pura superficie, sgranato come la sua pellicola, ingenuo come la sua protagonista e, come lei, al tempo stesso smaliziato a sufficienza da riempirsi di cammei inutili nel migliore dei casi (la Chloe Sevigny che appare fugacemente nei panni di una giornalista), fastidiosi e compiaciuti nel peggiore (come un James Franco del tutto sbagliato nel suo ritratto di Hugh Hefner).
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival