Love: la recensione del film norvegese in concorso al Festival di Venezia
Il mondo dei sentimenti e dell'amore, le convenzioni della società messe da parte da i due protagonisti di un intelligente e verboso film presentato in concorso a Venezia. La recensione di Mauro Donzelli di Love di Dag Johan Haugerud.
Lo stato delle cose di cuore, una disamina sulle relazioni sentimentali in una realtà piuttosto all’avanguardia nella libertà di scelta come la Norvegia. Lo scrittore e regista Dag Johan Haugerud ha pensato bene di realizzare una trilogia dedicata alle relazioni. Il primo, Sex, è stato presentato alla Berlinale, mentre il secondo, Love, ha avuto spazio nobile in concorso a Venezia. In attesa del capitolo più immateriale, Dreams, per l’amore si concentra sulle abitudini di due persone. Marianne è una dottoressa dalle certezze profonde, sicura della propria professione ma anche della sua vita relazionale da single senza particolari mancanze. Tor lavora nello stesso ospedale come infermiere, è pieno di compassione e altruista. A modo loro entrambi si collocano a una certa di distanza dalle imposizioni sociali che le relazioni impongono, anche in una realtà come quella di Oslo e della moderna Norvegia.
C’è un luogo in particolare, al di là di quello in cui lavorano, che rappresenta il centro narrativo e di fascino di questa storia. Un ferry notturno che collega il centro città con i paesi attorno, attraversando uno dei fiordi più affascinanti. È qui che si incontrano, per la prima volta al di fuori del lavoro, Marianne, reduce da un appuntamento al buio non andato proprio benissimo, e Tor, la cui frequentazione di quel mezzo di trasporto la notte è abituale, in cerca di incontri romantici con uomini. Uno dei momenti di improvvisa intimità, in cui una frequentazione anche piuttosto assidua, ma limitata a un universo circoscritto, si apre inedita a una dimensione privata e confidenziale. Marianne sembra incuriosirsi di fronte alla possibilità di mettersi in gioco, di riconsiderare la sua allergia agli incontri con scopi sentimentali o di immediata soddisfazione sessuale.
Colpisce la dimensione pacifica e ovattata del mondo di Love, in cui anche le infedeltà e i sentimenti vengono assorbiti e condivisi, se non rinfacciati, con una certa flemma nordica, con la volontà di risolvere in civiltà tutto con una conversazione adulta. È un film di dialoghi, come il cinema che rivendica il regista, in cui si mettono in discussione alcune dinamiche sociali secolari che sembrerebbero non cambiare mai, come lo sguardo di lieve compatimento per una donna single di mezza età, come la “nostra” Marianne, che rivendica la sua libertà.
Love evita scene madri o patenti diffuse di infelicità, ma si permette di riflettere su una società dei sentimenti immobile nelle sue convenzioni, mentre attorno tutto il resto è cambiato a ritmo frenetico negli ultimi decenni. Il lusso è poterlo fare in condizione di serenità, almeno relativa, di due personaggi che non hanno rancori o palesi mancanze, semplicemente si confrontano da una posizione matura e catturano il pubblico con confronti senza paletti o tabù. Che inedita dinamica, in un contesto sociale in cui ormai il dibattito si limita a esigenze elementari e ego riferite. Qui si vola alto, perché cosa c’è di più importante ma impossibile da prevedere dell’amore?
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito